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Premessa

Sono nato a Mendrisio nel 1967.
Sono un ufficiale professionista dell’Esercito svizzero.
Attualmente istruisco i quadri civili nelle attività di condotta - management, in situazione di crisi.
Ho iniziato con un apprendistato commerciale nel mio cantone, per studiare molti anni più tardi all’accademia militare presso il politecnico federale di Zurigo (ETH). Nel 2016 ho conseguito un executive MBA presso la University of Applied Sciences del cantone Grigioni.
I miei interessi professionali vertono sulla leadership, sul futuro, sull’esercito e sulla digitalizzazione; recentemente mi sono innamorato della Filosofia.
Raccontare le mie esperienze per migliorare me stesso e per chi, leggendomi, può trovare il giusto grado di riflessione, sono gli obiettivi del mio narrarmi. Ho voluto dunque dedicare questo libro a coloro che “conducono” ma anche a coloro che vengono “condotti” nel più svariato ventaglio di settori a cui la vita chiama. Un buon leader esprime sempre le sue convinzioni, consapevole che potrà raccoglierà critiche e a volte rischiare di compromettere la propria carriera. Condurre degli uomini e rispettivamente condurre donne è un privilegio. Un privilegio che deve spronare a dare il massimo. Essere d’esempio. Accettare i propri limiti. Costruire sulle forze, gestendo le debolezze.A tutti, chiedo di riflettere su questa affermazione che ritengo faccia di ogni uomo, un grande uomo:
(1)
Sono grato a tutte quelle persone che mi hanno detto di no.
È grazie a loro se sono quel che sono.
Albert Einstein
(2)
Mio caro Albert,
nel corso della vita anche a me è capitato di incontrare grandi volti e opache figure che hanno rallentato e a volte anche arrestato il passo. Grazie a loro mi sono fortificato.
Diversamente grato sono a chi ha creduto in me.
A chi mi ha amato, affiancato e sostenuto da sempre.
Grazie a loro sono un uomo felice.
Non sono perfetto e sono lieto di non esserlo perché credo che solo tentando e percorrendo nuove strade, l’uomo non si contenta ma migliora se stesso.
Alessandro Rappazzo

“essere leader non è cosa facile, anzi”
Mi chiamo Alessandro, sono un uomo come tanti, con un desiderio importante che mi accompagna da sempre: lasciare un mondo migliore, rispetto a come l'ho trovato. Ci provo ogni giorno, ci credo.
Non siamo immortali!
Oggi con il progresso tecnologico di cui siamo testimoni, sarà facile trovare traccia di noi nella sempre più immensa rete di comunicazione virtuale; vivremo così nella mente e nel ricordo di molti. C'è chi lascerà un'impronta importante e chi niente. Lo scorrere del tempo però è uguale per tutti. I giorni, le stagioni, gli anni si aggiungono dove, momento per momento, la nostra storia si sviluppa.
Qui, ha inizio la mia.
Mia madre era svizzera, ticinese, mio padre proveniva da Rodi-Milici, un piccolo paese della Sicilia. La mia origine italiana non è mai passata inosservata all’acuta percezione di me stesso, di quando ero bambino. Da piccolo, mi percepivo figlio di un italiano, di un siciliano, figlio di un terrone. O forse semplicemente il figlio di un immigrato. Si sa, i bambini danno, più degli adulti, una etichetta a ogni cosa. La mia era questa.
Mio padre è sempre stato un perfetto uomo italiano adattatosi con successo ai costumi ticinesi ma rimasto siciliano nel cuore; sin dalla mia tenera età si ostinava a preparare per me grandi ali d’aquila, mentre io, ancor più ostinato di lui, continuavo a scegliere per me, minute ali di piccione.
È stato il tempo a trasformarmi.
Grazie a quelle grandi ali d’aquila che ho scelto e deciso di indossare sono andato in alto e ho potuto vedere il mondo da altezze e prospettive diverse.
Oggi sono un ufficiale professionista dell'esercito svizzero.
Favoriti dal tempo che scorre e dall’accumularsi delle vicende, sempre più tendiamo a prendere decisioni guardando dietro noi stessi. Crediamo di ridurre le possibilità di errore, portando spesso in campo l’esperienza passata, dimenticando che a volte le mutate condizioni - qualunque esse siano - ci potrebbero portare su nuove strade e persino mostrarci soluzioni nuove. Nella convinzione di tutto ciò ho sempre cercato di confrontarmi con il mio presente guardando al futuro con grande apertura. Devo però ammettere che quest’ultima, non di rado si è scontrata con la mia stessa area di confort, con il mio ambiente di lavoro e a volte persino con le mie scelte.
Posso però dire oggi con fierezza che, nonostante lo sbattere contro alte mura e trappole diverse, sono riuscito sempre a mantenere elevate le nobili sfide a cui sono stato chiamato e dalle quali sono uscito a volte vincitore, a volte perdente ma mai disertore.
La mia piccola statura, i miei neanche cinquanta chili al reclutamento certo non mi aprivano molte porte. Fisicamente ero in forma: ero esile e senza un filo di grasso ma tutto il resto materia forte! Poi ho iniziato la mia carriera di milizia e pian piano ho raggiunto il grado di colonnello.
È stato un periodo intenso.
Ho incontrato e condiviso tanti momenti con tanta gente provenienti da tutte le regioni della Svizzera e con alcuni conservo ancora oggi ottimi contatti. La spensieratezza della recluta e del caporale Rappazzo, lasciarono poi posto ad una più grande responsabilità da tenente fino a capitano. Ho amato essere comandante di compagnia, una funzione che mi ha arricchito moltissimo. Poi dopo una lunga attesa che mi ha portato brevemente dalla logistica alla fanteria, ho assunto un comando di un battaglione di ospedale.
Un'esperienza magnifica e – come altre – molto intensa.
Se parliamo delle funzioni di comando posso dire di avere raggiunto l'apice.
Così vorrei fosse anche il mio domani.
Questo libro è la mia verità. Ogni persona osserva, ricorda, valuta, analizza e racconta gli avvenimenti secondo una sua prospettiva personale, dunque il punto di vista non è mai unico o uguale per tutti.
Nella parte seconda di questa mia biografia ho voluto approfondire, al fine di far precisa memoria, tratti del mio percorso militare. L’ho fatto con la precisa intenzione non di escludere ma di includere due mondi che solo apparentemente sono distaccati: il civile e il militare.
Scorrendo l’intero testo, noterete uno stile a volte burlesco, un po' ironico, ma il più delle volte vi accorgerete del mio essere vero, autentico. Questo fa parte della mia personalità.
Così mi racconto.
Così è questo piccolo personaggio che vuole, forse sentendosi ancora piccolo, diventare grande. Da grandi, si sa, si fanno cose da grandi. Io non so ancora cosa farò da grande, o forse si, lo scoprirete nelle ultime pagine di questo libro, dopo avermi letto con passione.

“Io non avevo queste costrizioni o retaggi
del passato”.
Nella mia esperienza di figlio ma anche di padre, posso affermare che nei figli spesso si proiettano sogni mancati e desideri irrealizzati.
L’istruzione scolastica è molto probabilmente tra i tanti desideri mancati della generazione precedente alla mia; dopo la seconda guerra mondiale la scuola non era fruibile a tutti.
La Sicilia, terra aspra, ancor più di tante regioni italiane, registrava nel dopoguerra un alto grado di arretratezza.
Il bacino del Mediterraneo, danneggiato rovinosamente dai bombardamenti aerei, non era certo nelle condizioni migliori per garantire studio e prosperità immediate. Intere generazioni, a causa delle condizioni economiche, non riuscivano a garantire una istruzione adeguata ai propri figli, avviandoli così verso un futuro incerto di lavoro di manovalanza: chi nei campi agricoli, chi nel settore edile.
Furono i libri di storia che mi permisero di comprendere le necessità del dopoguerra e a immaginare la vera ragione che condusse mio padre verso quel treno che lo portò fuori dal confine italiano.
Con il tempo, ho compreso perché il mio impegno a scuola era importante per mio padre. Sin da bambino lui mi parlava dell’istruzione come luogo privilegiato e io ricordo la mia felicità nell'iniziare il percorso scolastico.
Ricordo l’entusiasmo all’inizio della mia esperienza a scuola nel chiedere, nel conoscere cose nuove, nel verificare: ero un bambino curioso del mondo.
Tutto questo però ebbe breve durata perché in poco tempo il bambino che ero, venne preso dall'apatia. Non so ancora oggi dare una motivazione a ciò ma di sicuro le lezioni dopo poco tempo non riuscivano ad entusiasmarmi più di tanto.
Il mio era un silenzio quasi intellettuale.
Cessai di fare domande anche a casa; era come se non fossi più incentivato a conoscere, non avevo stimoli. Diventai a scuola un bambino silenzioso, un alunno tra i banchi, sempre presente in classe, quasi mai ammalato, un bambino poco brillante mentre al di fuori della scuola ero molto vivace.
Nell’ambito scolastico stavo li, seduto al mio banco e seguivo le lezioni attendendone solo la fine per poi poter uscire e correre nei campi alla ricerca della mia vera libertà.
Ero un bambino piccolo e insicuro con sempre una grande paura di sbagliare ma con un grande spirito libero a cui piaceva fantasticare.
A scuola mi mancava il fattore motivante; a casa non trovavo una adeguata armonia familiare e reagivo così.
Adesso vi conduco al momento in cui mi affacciai a questa difficile ma meravigliosa vita.
Era il 2 aprile 1967 e le lancette dell’orologio segnavano le 10:55. Un taglio al cordone ombelicale ed eccomi al mondo.
La mia storia ebbe inizio nove mesi prima, quando durante una vacanza al mare uno spermatozoo italiano si accasava nell’ovaia ticinese di mia madre.
Fu quello il momento in cui sentii per la prima volta il battito del mio cuore e per molti mesi, quel luogo sconosciuto, divenne la mia casa. Difficile ricordare il diffondersi delle tante sensazioni ed emozioni intorno a me. Ascoltavo parole di pace, litigi, speranze e progetti di vita.
Furono nove mesi di sballottamenti vari. Mesi di attesa.
Il due aprile vidi la luce e mi presentai al mondo.
Il 20 di aprile dell’anno successivo, durante le vacanze estive e probabilmente sempre nella stessa zona fertile, fu concepito mio fratello.
Roberto infatti venne alla luce esattamente nove mesi dopo, all'Ospedale Beata Vergine di Mendrisio. Lo stesso che vide la mia nascita.
Mi verrebbe da pensare che il frutto dell’amore dei miei genitori, sia stato sapientemente programmato.
Zack, vacanze estive e dopo nove mesi un pargolo dopo l’altro. Ecco, adesso la famiglia è completa.
I miei genitori probabilmente hanno provato a replicare una forma di esistenza modello: nascere, diventare grandi, formare una famiglia e garantirne un futuro migliore.
Trascorremmo tutti insieme i primi anni della mia vita, in una palazzina in via Carlo Diener, divenuta poi Carlo Cattaneo nel magnifico borgo di Mendrisio.
Di quel tempo ricordo le passeggiate, le stradine e i sentieri del Monte Generoso in compagnia di una fantastica zia e i giochi nel cortile della palazzina.
Andrea Alessandro Pietro: eccomi sono io!
Piccolo, due grandi occhi, folti capelli lucidi e neri.
Da bambino ho spesso sentito i parenti siciliani, chiamare mio padre “lo svizzero” benché lui si sentisse italiano, anzi siciliano. Io invece ero considerato un po’ diversamente forse perché avvertivano che io non mi sentivo svizzero per metà ma semplicemente svizzero.
Devo ammettere che la Sicilia è un’isola meravigliosa dal punto di vista storico, paesaggistico e climatico.
Ancor oggi invece mi è difficile comprendere come l’Italia, con l’alto potenziale industriale, con un importante vissuto storico e una avanzata attività culturale, possa contare ancora enormi differenze territoriali, che dividono dal punto di vista dello sviluppo socio-economico il Nord dal Sud.
Mio padre, pur non rinnegando mai le sue origini italiane e meridionali, è riuscito a integrarsi molto bene nella realtà svizzera. Lo ha fatto prima come emigrato e poi come cittadino svizzero e benché oggi non possa, per legge, esercitare i diritti politici attraverso il voto, ritengo che la Svizzera per lui sia come la sua casa: un focolare domestico dove ogni uomo trova calore e un po’ di se stesso.
Con gli anni, il rapporto con la sua terra di origine inevitabilmente tese ad affievolirsi.
Nel sangue - come lui dice - si sente siciliano, ma anche – questo lo dico io – un ticinese del Mendrisiotto.
Ricordo che quando ero bambino trovavo assurdo e allo stesso tempo divertente, sentire mio padre che dava del «lei» ai suoi genitori e per me questa era veramente una relazione genitoriale da altro mondo! Io non avevo queste costrizioni o retaggi del passato, io ai nonni davo semplicemente del «tu».
Devo ammettere che in quei pochi anni che mi sono recato in Sicilia, mio nonno mi incuteva un po’ di timore forse a causa del suo modo di parlare: un dialetto molto stretto di cui non capivo molto ma che al tempo stesso mi incuriosiva e mi affascinava.
Uomo asciutto, capelli bianchi, sopracciglia folte, silenzioso e sguardo penetrante, questo è il ricordo del nonno mentre mia nonna la ricordo rotondetta, bassina, con un grande grembiule e con una risata calda e giocosa di cui rimanevo incantato.
La prima volta che i miei genitori mi portarono in Sicilia avevo un anno e dunque mio fratello Roberto non era ancora stato concepito, cosa che sarebbe successa in seguito e avrebbe cambiato in poco tempo la mia vita.
Era l’estate del 1968. Il viaggio, a bordo di una Renault 8, durava dalle 18 alle 20 ore. Una vera tortura, al momento non lo sapevo ancora ma negli anni a seguire me ne accorsi: era un viaggio lungo e noioso, privo di tutti i gadget che conosciamo oggi.
La prima autostrada italiana a pedaggio risale al lontano 1924, fu la prima al mondo e fu chiamata Autostrada dei Laghi: collegava Milano a Varese. All’epoca fu considerata una eccellenza italiana aver creato una rete viaria dedicata soltanto ai mezzi a motore escludendone l’utilizzo a biciclette, carretti, pedoni e animali. Una eccellenza, che poi sanno essere stata realizzata da un italiano che studiò ingegneria a Zurigo: Piero Puricelli.
Il talento Italiano aveva incontrato la cultura svizzera e ne era uscito questo capolavoro!
Altri tratti autostradali in seguito si aggiunsero non solo in Italia ma in tutto il mondo.
Fu in occasione dei viaggi in Sicilia che conobbi il valore e significato di percorrere l’autostrada.
Il 1975 fu anche l’ultimo anno dai nonni. Ne fui contento perché il lungo viaggio mi costringeva a stare in auto per molte ore in un piccolo spazio.
Di quei lunghi percorsi in auto con piacere ricordo solo i vasti paesaggi che ammiravo dal finestrino posteriore dell’auto rimanendone impressionato per la loro mutevolezza. In quei paesaggi creavo storie e personaggi, eroi e combattenti che si alternavano lungo il percorso e così affrontavo la noiosa trasferta.
Ancora oggi ricordo l’arrivo a Villa San Giovanni, dove con la vettura ci imbarcavamo sul traghetto che ci portava a Messina per proseguire poi, attraversando Milazzo, al paesino di Rodì-Milici.
Le macchine a quell’epoca non avevano i portabagagli di oggi ed era facile vedere lunghe code di piccole auto con portabagagli in acciaio montati nella tettoia superiore dove venivano legate con forti cinghie, un numero considerevole di valigie e bagagli.
Per andare a casa dei nonni giunti alla frazione di Rodì, prendevamo la via V.E. Orlando per immetterci nella Via Bartola e sul finire della strada trovavamo alcune costruzioni adibite a deposito auto e a stalla per gli asini.
All’interno di questo spazio era stata abbandonata una vecchia auto, si trattava di una FIAT 500 ormai dismessa con la quale mi divertivo a giocare da esperto guidatore. Ricordo anche che dovevamo lasciare la nostra autovettura in questo spiazzo e continuare a piedi per raggiungere il caseggiato dei nonni in località Brusia, posto al termine delle costruzioni.
La vegetazione in Sicilia era composta prevalentemente da grandi macchie di uliveti e grandi pale di fichi d’India sparsi in maniera irregolare; dalla stanza dei nonni si poteva ammirare il mare: una vista mozzafiato.
Ricordo anche la loro casa: una sala da pranzo con tavolo e sedie in legno dalla quale uscendo si accedeva ad un locale adibito a cucina dove c'era un vecchio forno a legna che veniva usato dalla nonna per cuocere il pane. Nel piano inferiore ricordo un locale adibito a stanza da letto e di sotto una cantina contenenti vecchie botti di vino. I servizi igienici erano ad alcuni metri fuori dalla casa. Una costruzione in legno molto angusta e maleodorante. Una sorta di pre-moderno Toi-Toi.
Quando eravamo ospiti dei nonni andavamo al mare sempre alla stessa spiaggia e ciò rendeva noiosa la permanenza; facevamo anche delle passeggiate a piedi nel paesino di Rodi - Milici e luoghi limitrofi ma quello che saltava agli occhi era il grande cimitero del paesino, di una grandezza enorme e sproporzionata rispetto alla dimensione dello stesso.
Poche furono le gite in auto, di queste ricordo solo la Chiesa di Tindari, i giardini Naxos, il porticciolo di Milazzo e la Fortezza di Barcellona, Pozzo di Gotto.
Solo anni più tardi, tornai in Sicilia con un amico e la visitai con spirito diverso, rimanendo impressionato non solo dalla bellezza naturale ma anche dalle impronte culturali e storiche che le varie dominazioni hanno lasciato nel territorio.
Il rientro a casa in auto, dopo le vacanze dai nonni, era lo stesso viaggio lungo e noioso, pur se nel sedile posteriore negli anni successivi al primo, non ero solo. Con me infatti c’era mio fratello Roberto che mostrava già il suo carattere poco espansivo e un po’ introverso.
I mesi estivi erano periodi in cui le strade e ferrovie erano invase di lavoratori italiani; era tipico degli emigrati andare e ritornare dal “Paese” durante le vacanze.
Le loro auto erano sempre ricolme e appesantite da carichi pesanti e valigie di cartone.
Per anni io quelle valigie le vedevo nella nostra cantina.
Erano due, non di lusso, fabbricate con cartone pressato di colore verdastro e con diversi contorni neri. Erano il simbolo dell’emigrazione, un’emigrazione povera.
Solo dopo diversi anni, queste valigie simbolo di un tempo ormai trascorso, vennero gettate via dalla nostra cantina.
Questa la storia lontana di Carmelo Rappazzo, mio padre.
Così mi è stata raccontata.
Era l’aprile del 1963 quando un giovane di bell’aspetto, decideva di raggiungere la Svizzera con il treno in cerca di lavoro e con la speranza di trovarvi quella che era l’America dei tempi. Carmelo questo era il suo nome, sarebbe in seguito divenuto mio padre. Allora era un giovane in cerca di futuro.
Carmelo, era ultimo di tre figli, aveva una sorella venuta a mancare in giovane età (1939-1961), un fratello Filippo e lui. Ottenuto il consenso familiare preparò le valige con pochi effetti personali e decise di lasciare la famiglia.
Dentro il suo sacco da viaggio mise del buon formaggio, del salame, dell’olio e da bere quanto bastava per affrontare quel percorso in treno che sarebbe durato diversi giorni. Fu anche la prima volta che lasciava l’isola per andare in “Continente”, come i siciliani chiamavano la penisola italiana.
Sulla carrozza del treno, rumorosa e piena di altri giovani, Carmelo si trovò a condividere sentimenti di paura, curiosità e speranza; con loro viaggiavano i profumi della terra, ancora segnata da una povertà latente.
Il profumo delle pietanze, preparate dalle loro madri, accompagnavano questi giovani speranzosi durante il viaggio verso la terra di sogni e avventura.
I terreni un po’ brulli e secchi del Sud Italia lasciavano posto, chilometro dopo chilometro, ad un verde più intenso, a paesaggi montagnosi e villaggi ormai molto diversi dall’assolata Sicilia. Con occhio attento i passeggeri di quel treno riuscivano anche a trovare qualche segno del conflitto mondiale terminato ormai da decenni. Con l’avanzare delle ore di viaggio, aumentava per tutti loro l’ansia di raggiungere la pulsante Svizzera.
Carmelo doveva raggiungere Losanna, una cittadina nella svizzera romanda; lì grazie a un familiare avrebbe cercato lavoro.
La richiesta di manodopera a basso costo in Svizzera era alta e quindi ben presto riuscì a ottenere un impiego nel settore delle costruzione di strade e manutenzione di viadotti.
Non fu facile per lui.
Il lavoro era duro e pulire le diverse fognature era anche poco gratificante.
Era solo l’inizio. Un inizio difficile.
Non era questo che si aspettava.
Fu così che nel maggio dello stesso anno (1963), dopo solo pochi mesi di permanenza a Losanna, preso dallo sconforto, desiderò solo di ritornare in Sicilia.
Nei momenti di solitudine e malinconia il desiderio di tornare indietro fu molto forte; nella mente riaffiorava il ricordo del fischio dell’aria che attraversava le fessure nello scompartimento e il cadenzato e ritmico rumore delle ruote di quel treno che lo portò lontano dalla Sicilia.
Poco prima di lasciare definitivamente la Svizzera, Carmelo si recò a far visita a un uomo del suo paese che lavorava a Ponte Tresa e ciò cambiò il destino della sua vita. Quell’incontro fu così propizio che Carmelo rimase nell’area di Lugano per tutto il 1964. L’anno successivo si trasferì a Bellinzona e nel 1966 a Mendrisio.
Erano anni duri. Il lavoro era pesante e bassa continuava ad essere la paga: ogni franco svizzero andava ben speso. Nella primavera del 1964 fu trattenuto all’Ospedale Italiano di Lugano per malnutrizione e forte stato di stress. Fu in questa settimana di permanenza in ospedale che Carmelo conobbe Cecilia Caterina Maria, ricoverata per appendicite: la donna che divenne la sua compagna e in seguito sua moglie. Mia madre.
La scelta di Carmelo di emigrare in Svizzera non venne mai ostacolata dalla sua famiglia ma i miei nonni furono molto reticenti quando seppero della sua relazione con una donna svizzera. Avrebbero certo preferito una donna dalle origini italiane. In Italia, si dice: moglie e buoi dei paesi tuoi.
Malgrado le resistenze familiari paterne i due giovani decisero di sposarsi e di vivere a Mendrisio nella loro casa in fitto alla Via N. Diener.
Era il 1966. In quella casa vissero gli anni successivi al loro matrimonio con i loro bambini Alessandro e Roberto. Io e mio fratello.
L’istruzione che aveva ricevuto Carmelo si limitava alla quinta elementare; ne era cosciente e pertanto il suo obiettivo principale divenne quello di migliorare la sua posizione sociale.
Anni più tardi, con dedizione e sacrificio, raggiunse i suoi obiettivi conseguendo un diploma federale (1972) per acquisire la qualifica di capo-muratore. Acquisite tali competenze, trovò una occupazione stabile presso una ditta locale del Mendrisiotto.
Merito delle competenze acquisite e alla stabilità che ne seguì, mio padre decise di costruire per noi una casa a Ligornetto, riuscendo così a integrarsi con successo nel tessuto sociale del Cantone del Ticino.
La nostra nuova abitazione si trovava in Via San Giuseppe n.9. Ricordo ancora i vicini di casa tra cui un professore di lingua italiana e una famiglia molto simpatica di contadini.
Nella costruzione di questa casa, mio padre ebbe un ruolo strategico: pala alla mano contribuì in prima persona alla sua realizzazione. L’edificio finito si presentava come una abitazione grande e accogliente, con intorno solo paesaggi di prati e piccoli boschi, teatro delle mie fantasie di gioco da bambino.
Il divorzio dei miei genitori ha lasciato segni profondi e di diversa entità su ogni membro della mia famiglia.
Cecilia Caterina Maria Tosetti, mia madre, nacque a Mendrisio il 7 di maggio del 1944; lei e mio padre si sposarono il 22 gennaio 1966 e decisero legalmente di divorziare nel gennaio del 1984.
La rottura della loro unione – che ricordo ancora molto bene - avvenne però molti anni addietro.
Era un giorno qualunque, ero ancora un bambino.
Quel giorno vidi volare le valigie dal primo piano fino a pianterreno. Come in una scena di un film, mio padre gettava le valigie dalla finestra di casa; lei - mia madre - le raccoglieva e le caricava sull'auto.
Ricordo che presi la bicicletta e percorsi diverse centinaia di metri prima di fermarmi nuovamente; poco dopo, lungo la via San Giuseppe, vidi giungere una Simca Rossa. Era mia madre. I nostri sguardi si incrociarono. Niente di più.
Mentre io ero fermo, vidi la sua macchina rossa proseguire la sua desolata marcia, uscendo così definitivamente dalla scena familiare e dalla mia vita.
Fu quella l'ultima volta che vidi mia madre.
Contro ogni buona norma di diritto familiare, io e mio fratello Roberto rimanemmo con nostro padre nella casetta tra il verde e la natura del paesino di Ligornetto.
Ogni anno, all’avvicinarsi delle feste di Natale, ricevevamo una lettera d'augurio da mia madre. Io non ho mai risposto. Dopo un paio d’anni anche le lettere cessarono.
Non ho mai odiato mia madre, forse l’ho anche molto amata. Di certo, l’ho sentita sempre più lontana prima con le emozioni e poi fisicamente.
Quando lei ha sposato mio padre erano giovani, forse troppo giovani. Non erano tempi facili, hanno provato a stare insieme ma la loro unione non ha funzionato.
Questo è tutto ciò che penso di loro.
Ogni madre rimane sempre madre. Io come figlio - in età adulta - ho sempre sperato per lei il meglio. Una vita che la soddisfacesse di più, come lei desiderava.
Prima del loro divorzio ricordo i diversi contatti con i vari componenti dei due rami familiari; la loro unione era un castello di sabbia che iniziò a crollare dopo la morte della nonna materna.
Da lì a breve, seguì il divorzio e il progressivo allontanamento dei diversi nuclei familiari materni e paterni.
Non è utile citare le diverse motivazioni che portarono quel vaso in frantumi. È successo, poteva essere un bel vaso ma si è rotto: è stato un vero peccato.
Io ho sempre guardato avanti senza mai girarmi indietro.
Oggi ho una famiglia a cui voglio bene e che mi rende felice.
Nel corso degli anni, mio padre ci ha trasmesso pillole della sua vita passata, talvolta anche riuscendo a stupirci con antiche e virtuose storie di famiglia e dei nostri antenati.
Una triste storia emerse anche dalla stesura dell’albero genealogico della famiglia e rimase molto impressa a me e anche a mio fratello Roberto, uno storico mancato. Roberto infatti, per la sua passione storica e letteraria, avrebbe dovuto studiare storia e filosofia e non impegolarsi come giurista in una banca svizzera.
La storia triste a cui mi riferisco fu quella di due fratelli di nome Giovanni Rappazzo probabilmente imparentati con nostro nonno: il primo dei due caduto durante la prima guerra mondiale, il secondo durante la seconda mentre era di stanza in Libia presumibilmente a Tobruk, dato che i documenti ufficiali lo danno per disperso.
Giovani vite spezzate per guerre che distrussero l'Europa moralmente e fisicamente. Sangue versato da persone comuni che si trovarono a combattere guerre quasi ormai dimenticate.
Qualunque sia il motivo di una guerra, essa è sempre un segno di degrado dell’uomo di ogni tempo perché sostituisce al dialogo, la violenza e la crudeltà.
Questo percorso, mi portò inizialmente a voler effettuare una ricerca storiografica attraverso diverse specie di documentazioni e intervistando chi poteva ancora rispondere alle mie domande - a volte scomode.
Raccolsi tutte le informazioni e in una seconda fase feci controllare il mio DNA per accertarmi delle mie radici, soprattutto per cercare di cogliere il valore globale del nome Rappazzo.
È stato un percorso bellissimo, dove ho scoperto e a volte riscoperto situazioni di particolare interesse.
Dopo un po’ di tempo e diverse riflessioni decisi di creare uno stemma di famiglia che mi rappresentasse. Questa decisione la presi dopo l’incontro fatale con un uomo nobile, vicino ad alcune famiglie di altezze reali europee.
Questo giovane uomo, conosciuto tramite la mia vasta rete telematica di contatti era un docente e ricercatore universitario e appurai personalmente che aveva una grande conoscenza e competenza su blasoni e genealogie. Fui invitato presso il suo studio, dove mi mostrò numerosi libri e documenti. Prese nota di alcuni miei dati e mi rassicurò di potermi consigliare su alcune vie da seguire.
L’analisi del DNA, da cui potei conoscere l’origine dei miei antenati nei millenni passati, fu molto suggestiva.
Questo studio dimostra quanto sia relativa la provenienza geografica, che magari ognuno pensa e immagina dei propri avi.
Il nobiluomo, persona fuori dagli schemi, successivamente mi consigliò la creazione di uno stemma di famiglia ex-novo, accompagnandomi in un percorso di scoperta lungo più di un anno, ricoprendo il ruolo importante di guida, verso le mie radici.
Non avendo trovato, attraverso questa indagine, dei blasoni antichi della famiglia Rappazzo, non essendo essa contemplata nella nobiltà dell’epoca, la soluzione più adeguata fu quella di optare per un blasone ex novo.
In effetti sarebbe stato esoso, difficile e dispendioso optare per ulteriori ricerche.
Il mio aristocratico consulente, essendo a sua volta amico dell’araldo di uno stato monarchico europeo, che regnò nei secoli passati in Sicilia, decise di raccomandarmi alla prestigiosa autorità, per farmi ottenere una concessione ufficiale per il mio blasone.
Così rispondendo a diverse domande sul mio carattere, capacità, provenienza e in base alle regole dell'araldica si poté definire il mio stemma di famiglia, che vi invito a visionare nell’allegato posto alla fine di questa biografia.

“...tutto inizia dal tuo perché”
Il mio rimpianto è sicuramente lo studio.
Sin da bambino non c’erano le condizioni, poi non ero pronto o forse non c’era la scintilla, ovvero quella motivazione che è motore di ogni essere umano all’azione, pur se fanciullo.
Solo con la maturità e le mutate condizioni sociali, ho compreso l’importanza dello studio.
Nel 2014-2016 ho conseguito un executive MBA.
Ho ancora sete di cultura e studio.
Il perfezionamento culturale è entrato nel DNA del mio io attuale. Ho saputo dare una risposta al “perché” tanto caro allo scrittore Simon Sinek: tutto inizia dal tuo perché.
Il perché allo studio è semplice, la cultura permette a ogni uomo di evolversi e restare al passo dei tempi.
Lo studio è necessario per aprirsi al mondo; serve per giungere a nuove conoscenze e vivere da protagonista questo splendido viaggio che è la vita. Questi sono i miei perché.
Tutto ciò non lo capii però quando ero ancora bambino.
Esiste un detto che dice: “studia altrimenti ti crescono le orecchie d’asino!”.
Ritengo ciò una vera offesa ai quadrupedi con le orecchie lunghe, in quanto gli asini oggi vengono riscoperti come animali intelligenti e vengono usati spesso per la loro docilità in pet-terapy per bambini e adulti. Quindi in realtà gli asini, con la voglia di studiare, hanno veramente poco a che fare.
In ogni caso per i miei comportamenti e il poco studio potevo rientrare in quella categorie di bambini con orecchie d’asino!
Ho ancora nitidi ricordi dell’asilo gestito dalle suore, che frequentai nel piccolo paese di Ligornetto.
L’asilo era provvisto di mensa, ampi spazi per giocare e riposare. Ogni giorno, dopo il pranzo, tutti i bambini erano costretti al riposo pomeridiano su brande disposte in riga, in un ordine preciso, quasi militare.
In quel contesto così pio, incontrai la prima volta l’ingiustizia; se da adulti si riesce meglio a gestire il dolore che un’ingiustizia provoca, da bambini, ciò risulta molto più difficile.
Nella mia infanzia ci sono stati due episodi che, ancora oggi a distanza di tanto tempo, ricordo con amarezza; entrambi legati alla distribuzione di giochi.
Un giorno, le suore a scuola iniziarono a dare a tutti noi bambini un dono. Ogni bambino riceveva il suo gioco. Anche io lo ricevetti e la mia gioia fu grande. La mia felicità purtroppo ebbe vita breve perché un altro bambino rimase senza gioco e dopo un attimo di esitazione le suore decisero di toglierlo a me per darlo a lui.
Ricordo che provai un dolore forte al cuore: ai miei occhi questa era una grande ingiustizia.
Le suore mi dettero un altro gioco ma non lo presi, sentivo bruciare la ferita della delusione dentro me. Scoprii così quel giorno di essere un bambino sensibile.
Un altro episodio simile me lo confermò.
Eravamo nel cortile dello stesso asilo e le stesse suore distribuivano altri giochi, in questo caso si trattava di pistole giocattolo. Io e altri compagni d’asilo eravamo un po’ distanti, assorti nei nostri giochi di squadra. Quando ci accorgemmo della distribuzione ci avvicinammo per poter prendere anche noi quelle bellissime pistole giocattolo. Niente! Finito! Per noi niente! Anche in questo caso ci rimasi male, fu un’altra delusione.
Una delusione da bambino che ancora oggi vive nei ricordi di un uomo, significa che ha avuto il suo peso e lasciato il suo segno.
Grazie al cielo l’anno trascorso all’asilo si concluse presto. Terminato il periodo dell’asilo frequentai le elementari sempre a Ligornetto. Ricordo all’inizio della scuola, una certa curiosità e desiderio di andare alle lezioni.
La mia maestra, al primo anno delle elementari, si chiamava Rachele ed era ormai vicina al pensionamento. Insegnava matematica con delle cannucce verdi e con queste, io imparai le addizioni e le sottrazioni.
In quello stesso anno, ricordo che insieme ai miei genitori mi recai a Zurigo in treno.
Dovevo effettuare dei controlli per una temuta diagnosi di “soffio al cuore”. Quando arrivammo alla stazione di Zurigo, notai che il treno si fermava e mi spiegarono che eravamo giunti al capolinea. Io guardai con attenzione le rotaie del treno e mi accorsi che lì terminavano.
Un giorno, tornato a scuola, la maestra spiegava che le ferrovie collegano tutto il mondo. Io alzai la mano e dissi che non era vero. Io lo avevo visto! A Zurigo la stazione si interrompeva. Il treno non continuava. Lei disse di no, io dissi di si e dopo un paio di scambio di opinioni, sentii il rumore dello schiaffo sul mio viso.
L’anno successivo, ebbi una nuova insegnante. Il suo nome era Ceci. Non so se Rachele decise di andare in pensione o la costrinsero per i suoi metodi di insegnamento inadeguati. Non importa.
Il quarto e il quinto anno fu la volta di Simonetta.
I miei risultati scolastici non furono mai eccellenti.
Studiavo il necessario ma nulla di più.
Quelli furono gli anni in cui si erano formate delle bande di bambini. O si stava con quello o si stava con l’altro.
Io dovendo scegliere a quale gruppo aggregarmi, decisi di non schierami con il più forte ma in quello dove potevo essere più visibile. Tuttavia per me non fu facile emergere in gruppo perché ero piccolo e nella giungla dell’infanzia, l’essere forti fisicamente costituiva un elemento importante per essere apprezzati. Tra l’altro non amavo neanche le zuffe e quindi mi tenevo lontano da episodi di guerra tra bande di piccoli.
Ogni giorno per raggiungere a scuola ero costretto a percorrere circa due chilometri a piedi. In quel tragitto a volte facevo anche qualche marachella, tipo suonare qualche campanello o togliere qualche collante dai cartelloni stradali per poi darmela a gambe, insieme ad altri bambini.
Un giorno ricordo che un vigile mi beccò in flagranza di reato e mi portò davanti a chi non so per una bella ramanzina.
Ero un bambino e la ramanzina ci stava!
Ciò che mai ho sopportato invece è la violenza degli adulti sui bambini, lo ritengo un gesto di viltà dell’adulto.
Un giorno sostando nel parcheggio della scuola stavo giocando, quando per un motivo che ora non ricordo, mi avvicinai ad una vettura parcheggiata, toccandola con la mano e forse poggiando su di essa un foglio di disegno. Improvvisamente, dal secondo piano sentii urlare un impiegato comunale. Pochi istanti più tardi l’uomo si presentò davanti a me e con tutta la sua forza schiacciò il mio viso sull’auto. Non mi ricordo se piansi o meno.
Ricordo però che la forza di quel gesto fisico mi fece star male. A casa, credo di non aver detto nulla. Tenni tutto dentro me. Temevo forse di essere ulteriormente rimproverato.
Dopo il quinto e ultimo anno della scuola elementare, in famiglia discutevamo del mio futuro scolastico. Si trattava di decidere se dovevo accedere alle scuole maggiori a Stabio oppure al più quotato ginnasio di Mendrisio. Io volevo andare a tutti i costi a Stabio; lo desideravo perché li sarebbero andati quasi tutti i miei compagni della scuola elementare.
Mio padre voleva assolutamente che andassi a Mendrisio.
Già da allora desiderava che il suo primogenito proseguisse in maniera eccellente, il suo cammino verso ciò che gli avrebbe consentito l’accesso agli studi superiori. Ricordo che ci furono accese discussioni e probabilmente anche per il mio non proprio brillante curriculum scolastico, condivisero alla fine la mia scelta di proseguire il secondo ciclo scolastico a Stabio.
A Stabio fu anche la prima volta che iniziai ad avere insegnanti di sesso maschile. Eravamo due classi. Furono tre anni relativamente piacevoli, dove mi innamorai delle prime ragazze.
Quante ore ho speso nel cortile della scuola! Io ero piccolo, ma veloce! Anche in questo periodo però la mia dedizione allo studio era bassa. Mi limitavo all’indispensabile.
La scuola di Stabio si trovava a diversi chilometri di distanza da casa e per raggiungerla dovevo prendere l’auto postale. Io però, a volte, preferivo spostarmi a piedi attraverso i campi o prendere la bicicletta, specie nei mesi caldi.
Anche mio fratello iniziò la frequenza nella sede della stessa scuola un anno più tardi; le nostre strade scolastiche però si divisero al termine dell’ultimo anno del ciclo di studi. Mio fratello infatti intraprese con successo la strada che lo avrebbe portato all’università di Friborgo, dove si dedicò agli studi di giurisprudenza, mentre io, in un travagliato periodo pieno di conflitti con mio padre, ottenni – dopo l’apprendistato – il mio diploma di commercio.
Mio padre, durante il terzo anno era intenzionato seriamente a farmi continuare gli studi e ricordo che mi iscrisse agli esami per accedere alla scuola commerciale superiore di Bellinzona. Io non mi sentivo portato per studi così impegnativi.
Per non deludere mio padre mi chiudevo in casa con le tapparelle abbassate, cercando di studiare e prepararmi agli esami. A volte però scappavo da scuola e andavo in bettola a giocare a flipper. Un giorno davanti al flipper si presentò mio padre. Dolori!
Gli esami, come previsto, furono un fiasco. L’alternativa fu la pre-commercio a Chiasso. Fu un anno difficile perché iniziavo a rendermi conto delle mie debolezze.
Fui quindi ben contento di iniziare, dopo l’anno di pre-commercio, il mio apprendistato a Morbio Inferiore.
A quell’epoca avevo la convinzione che lo studio non fosse importante e credevo che bastasse solo un buon lavoro per essere un uomo di successo. A quell’epoca era ancora possibile ma un paio d’anni più tardi, il panorama delle professioni cambiò radicalmente.
Purtroppo non mi distinsi nemmeno nell’apprendistato.
Il primo anno, ero debole in francese. In verità non mi piaceva l’insegnante. Il secondo anno da una nota insufficiente passai a una nota buona. La nuova insegnante, più anziana della prima, mi seppe motivare portandomi a risultati che non avrei mai potuto sperare. Al termine dell’anno, sotto l’arco della struttura scolastica, ricordo mi rivolse un sorriso chiedendomi se ero stato contento dei miei progressi scolatici.
Si, in effetti lo ero!
Ero contento per i miei progressi ma soprattutto per aver acquisito maggior fiducia in me stesso.

“la vicinanza crea sostegno,
solidarietà, sicurezza e confronto”.
Agli inizi degli anni 2000 avevo tre convinzioni che dovevano costituire le linee direttrici del mio futuro:
- Mai spostarsi dal Ticino;
- Nessuna insegnante al mio fianco;
- Nessuna donna svizzero-tedesca come compagna.
Il primo luglio 1997, segnò l'inizio della mia carriera verso la nuova professione di ufficiale professionista.
Con questo già veniva meno la mia prima intenzione.
Così all’inizio secolo, mi ritrovai al secondo anno dell'accademia militare e proprio allora il destino mi portò su nuove strade e seducenti sfide.
Primo trimestre del 2001.
Durante il primo e il secondo anno all'accademia militare avevo trovato un appartamento a Schwamendingen (ZH), mentre il terzo e ultimo anno scelsi di vivere in un appartamento a Horgen (ZH), che avrei condiviso con il mio amico e Olivier Lichtensteiger.
Horgen (ZH), Speerstrassee 31. A casa con Olivier. Persona fantastica, con lui mi trovai molto bene: eravamo entrambi iscritti all’accademia militare e concentrati sugli studi per terminare l'anno e ottenere il diploma di ufficiale professionista.
Una sera uguale a tante altre, rientrando a casa, incontrai all'entrata dello stabile una ragazza. Scambiammo qualche parola e niente più, ricordo ancora quanto i suoi occhi mi apparvero lucenti e il suo sguardo profondo.
Qualche tempo dopo casualmente ci rincontrammo e mi invitò a prendere un caffè nel suo appartamento. Fu terribile. Il peggiore caffè bevuto in vita mia!
Muriel, questo era il suo nome, preparò il caffè con una Melitta. Mi accorsi subito che la caffettiera era, per dimensione, adatta a servire il caffè a più persone e vidi Muriel riempire solo parzialmente la caffettiera con la polvere di caffè.
Risultato: un caffè acquoso e imbevibile. Mi guardai intorno per cercare una zuccheriera e rimediare all’orrendo sapore. Forse Muriel non consumava zucchero? o forse non sapeva che il caffè di solito si addolcisce o forse semplicemente non lo aveva in casa.
Mi sembrò poco gentile fare osservare a Muriel la mancanza del dolcificante e non dissi nulla cercando al meglio di bere quel liquido scuro, sorso dopo sorso, preoccupandomi solo che lei non capisse il mio totale disgusto.
Discutere con Muriel mi piaceva, era una ragazza semplice e sorridente. Mi faceva ridere e sentivo di star bene con lei.
Scoprii in quella occasione che era insegnante della scuola elementare, altro segno del destino sordo alle direttive che mi ero dato: nessuna insegnante al mio fianco”.
Lo ammetto, a volte pensavo a Muriel ma era solo un pensiero transitorio che lasciava subito posto ad altri obiettivi.
Volevo concentrarmi sul diploma che da lì a breve avrei dovuto conseguire e per questo avevo fatto richiesta di incontrare un professore a Roma per effettuare un’intervista inerente il mio diploma.
Ecco il punto: Roma, città eterna.
Caratterialmente sono sempre stato un timido ma in certe occasioni ho scoperto che la mia bocca è riusciva ad essere più veloce del mio cervello.
Era un pomeriggio come tanti altri e mi trovavo nei paraggi di un parcheggio vicino casa, quando vidi una Polo avvicinarsi. A dir la verità prima vidi uno splendido sorriso e dopo la vettura blu. Era Muriel.
Non so cosa mi prese o forse non sapevo cosa dire e dissi la prima cosa che mi venne in mente. Di certo in quel momento la mia timidezza si afflosciò e la mia favella esplose: “Muriel, andiamo fuori a cena?”. La sua risposta fu inaspettatamente positiva.
Fu così che quella sera cenammo in un delizioso ristorante con vista sul lago: il Key-West a Oberrieden nel cantone di Zurigo. Non ci conoscevamo e avevamo molto da raccontarci. Dopo cena ci avviammo verso il villaggio di Au tra Horgen (ZH) e Wädenswil (ZH), più precisamente nella penisola di Au, del lago di Zurigo. Fu una serata bellissima.
In quel contesto così romantico, la mia parola continuò a essere più veloce della mente e senza alcun imbarazzo le chiesi: “Muriel, fra un paio di settimane devo andare a Roma per un paio di giorni, vuoi accompagnarmi?” Lei non dette subito una risposta; preferì rinviare a un momento non precisamente determinato. Mi disse che si sarebbe fatta sentire lei.
I giorni proseguirono nel loro quotidiano finché una sera, suonò il campanello di casa ed io andai ad aprire. Davanti a me Muriel e notai subito che teneva in mano un’agenda.
Non so come fece ma con una velocità impressionante Muriel raggiunse la mia stanza, si sdraiò sul materasso – non avevo un letto normale – aprì l'agenda e mi disse: «Ho intenzione di venire con te a Roma!».
Il mio primo pensiero: «Ooops! Ora la cosa sta prendendo una piega diversa!». Si, fu proprio una sorpresa in quanto non credevo avrebbe accettato.
Muriel aggiunse in maniera diretta che sarebbe stato utile, prima di andare a Roma, di trascorrere una serata insieme per meglio conoscersi. Condivisi in pieno. Raccontai poi tutto al mio compagno di appartamento, sposato da parecchio tempo e già padre di due figli. Lui ammiccava e rideva.
Iniziai quindi da quel momento a organizzare la nostra trasferta a Roma che prevedeva il primo spostamento con la vettura fino a Chiasso; poi da Chiasso avremmo dovuto prendere il treno per il tragitto Chiasso - Roma. Giunti a Roma Termini saremmo andati in hotel e dando spazio alla comodità avevo scelto un albergo vicino la Stazione Termini. Infine confermai il mio incontro con il professore.
I tempi liberi, prima e dopo l’incontro con il docente non li avevo programmati. Pensai che la città eterna nel suo proverbiale splendore ci avrebbe offerto mille possibilità di svago e avremmo sicuramente organizzato qualcosa sul posto.
Così, fiero di aver pianificato tutto, lo comunicai a Muriel: “Le date sono queste, ci sposteremo prima con auto, poi con treno, poi dormiremo in una camera in Hotel, il mio incontro sarà a quest’ora e poi faremo… Ma non mi fece finire di parlare e disse: “Hotel? Una camera?”. Imbarazzante silenzio.
Aspettava una mia risposta ed io: “Ok, Ok non ci avevo pensato”. Fu così che un po’ impacciato le chiarii che abituato con gli scout a condividere tutto non mi ero soffermato sulla questione e avevo prenotato una sola stanza.
Muriel, con una punta di coraggio - ci conoscevamo da pochissimo - rispose che sarebbe venuta a Roma con me ma che non avrei dovuto importunarla, approfittando della stanza in comune.
Pensai e forse le dissi: “Chiaro, su questo non ci piove”.
Fu così che partimmo per Roma.
Iniziammo il nostro viaggio come due giovani amici e tornammo come coppia. Ecco, tutto era accaduto in maniera veloce.
Mentre ero assorto a preparare il diploma, l’incontro con Muriel: svizzera tedesca ed insegnante. In altre parole, in maniera definitiva e irrimediabile le mie linee direttrici di inizio 2000, si rivelarono del tutto mutate.
A Roma i giorni trascorsero veloci e intensi cambiando decisamente la direzione delle nostre vite. Visitammo la Capitale italiana: il Colosseo, la Basilica di San Pietro, il Pantheon, Piazza di Spagna, la Fontana di Trevi e tante altre meraviglie sparse lungo le strade romane.
Un pomeriggio intorno alle ore 18:00 decidemmo di cenare.
Avevo avvertito Muriel che in Italia, diversamente dalla Svizzera, cenare alle 18 non è nella norma. Per capire il seguito, avreste dovuto vedere gli occhi del cameriere. Scoppiai a ridere.
Sulla via del ritorno, prima di rientrare ad Horgen (ZH), volevo passare da Meride, nel mio appartamentino ticinese in via Bernardo Peyer; ero molto stanco e avrei preferito fermarmi per una notte. Niente di tutto ciò. Muriel voleva assolutamente rientrare. All'altezza di Meride, pioveva forte, a stento vedevo davanti a un palmo di naso. Ero stressato e stanco. Avrei voluto fermarmi e dormire ma proseguii. Giunti ad Horgen (ZH), ero come bollito ma anche contento di essere arrivato a casa.
Da quel giorno io e Muriel condividemmo tempo e spazio in maniera sempre più intensa.
Terminati gli studi e il percorso per il diploma, seppi che avrei dovuto iniziato a lavorare a Berna e così trovai un fantastico appartamento a Bremgarten bei Bern. Quel tempo, oltre al lavoro, lo dedicai a me e Muriel.
L’appartamento si trovava nella Stuckihausstrasse a Bremgarten bei Bern: per giungervi bastava percorrere la Neubruckstrasse sul ponte Nuebrügg che attraversa il fiume Aare. Dopo il ponte si svoltava a sinistra e dopo pochi metri a destra si scorgeva lo stupendo stabile in legno, occupato in parte da un ristorante d’epoca: il «Rudolf von Erlach».
In questo pittoresco angolo, si trovava anche il mio appartamento. Il profumo del legno datato, il lento rumore del fiume, la natura circostante erano elementi molto suggestivi. Il tempo libero per vivere dentro questa cornice era minimo ma ne valeva la pena.
Al termine del ciclo di studi, sia io che Olivier, disdicemmo l'appartamento; io rimasi salendo di un piano. Un paio d'anni più tardi mi spostai presso la Hintere Etzelstrasse 23, in un appartamento nuovo e più grande sempre a Horgen(ZH).
Avevo comunque mantenuto l'appartamento in Ticino a Ligornetto perché l’ho sempre considerato un rifugio; devo anche ammettere che ho sempre avuto difficoltà a disfarmi di qualcosa che nel passato ho molto amato.
La relazione con Muriel proseguiva con una frequentazione inconsueta: durante la settimana io vivevo a Berna e con Muriel ci sentivamo al telefono; il fine settimana lo trascorrevamo a Horgen (ZH) e solo a volte lei veniva a trovarmi a Berna.
Fra alti e bassi – e ne sono felice – abbiamo proseguito il nostro cammino di coppia. La nostra unione superò anche la dura prova dovuta a una mia grande assenza. All'inizio della nostra relazione, le avevo infatti confidato che un giorno o l'altro sarei andato all'estero per alcuni mesi. Fortuna fui trasparente!
Solo dopo alcuni mesi di lavoro, ricevetti l’offerta di soggiornare negli Stati Uniti per studi. Il tutto era previsto era il 2002, poi ciò avvenne nel 2003.
In USA al termine delle lezioni, mi recavo nel mio appartamento e alle sedici - in Svizzera erano le ventidue – chiamavo Muriel. Lei venne due volte a trovarmi.
L’arrivo di Muriel in Usa per la prima volta ci fece ridere molto. Ero all’aeroporto di Washington-Dulles ad attenderla, quando all’improvviso sentii all’altoparlante un nome: «Rapa(s)zo!». Riconobbi il mio nome seppur pronunciato male.
Non conoscevo molto la lingua inglese quindi non capii subito il contenuto dell’appello ma pensai immediatamente che qualcosa non andava! Mi presentai allo sportello aeroportuale, dove mi chiesero se fossi in attesa di una donna svizzera e precisamente di Miss Muriel Huber. Risposi: «Certo!».
Scoprii a quel punto che le autorità avevano fermato Muriel, perché non aveva saputo dire dove doveva andare! Dopo questo scambio di informazioni vidi una porta che si apriva e Muriel mi venne incontro con il suo solito sorriso disarmante! Ridemmo molto su questo espediente americano di Muriel.
Durante la settimana ero costantemente sotto pressione; dovevo gestire il mio lavoro e il mio tempo con molta attenzione. Il fine settimana mi piaceva abbandonarmi alla vivace capacità di Muriel di organizzare i nostri fine settimana. Questa era una delle cose che da sempre ho amato di lei.
Sarò sincero. A volte questa sua dote organizzativa non mi favorì anzi mi provocò dei disagi - specie in certe occasioni di viaggio. Ma sono ancora vivo.
Thailandia – estate 2005.
La Thailandia fu il nostro primo grande viaggio. Volevo da tanto tempo andare nel continente Asiatico. Il nostro programma prevedeva una prima parte al Nord del paese ossia a Chiang Mai, per poi concederci una settimana di relax a ko Samui, per trascorrere prima del rientro alcuni giorni a Bangkok. Paesaggi stupendi, vegetazione verde e intensa. Una delle nostre sistemazioni fu un bungalow, ubicato in mezzo ad un verde impressionante. Intorno alla nostra dimora tutto era natura; si sentiva nitidamente il rumore delle foglie e l'echeggiare di qualche animale che si trovava nelle vicinanze.
Adesso vi racconto una delle tante giornate organizzate da Muriel in vacanza, corredata dalle disavventure capitatemi.
Era un giorno assolato come tanti e dopo una gita su un grosso elefante, avremmo percorso diversi chilometri su un gommone. Il fiume aveva uno strano colore scuro tendente al marrone e sembrava quasi prostrarsi a noi con tutta la sua forza. Dopo le preliminari preparazioni dell’equipaggio, mettemmo i gommoni in acqua e iniziammo a remare. Dal gommone potevamo vedere la fitta vegetazione e qua e là qualche abitante intento nelle proprie faccende. Mentre vogavo con forza, dentro la mia bocca – forse semiaperta per lo sforzo del remare - entrò dell’acqua di fiume dal sapore disgustoso. Sputai fuori ciò che potei ma non riuscii ad evitare di ingoiare qualche goccio di quell’acqua.
Dopo la gita in gommone, venne la gita in bicicletta. Iniziai a sentire alcuni brontolii strani allo stomaco. Ma niente di più. Allorquando ci stavamo avvicinando al nostro accampamento, la guida ci propose di passare al villaggio adiacente per un the.
Muriel era entusiasta mentre io mi sentivo un po’ strano, avvertivo uno strano calore che saliva fino alle orecchie. Pensai di essere paonazzo. Giunti al villaggio, presi atto che si trattava di un villaggio rudimentale, composto da capanne di alberi e paglia. Entrammo in una di queste case e con grande imbarazzo chiesi se potevo usufruire dei servizi igienici. Dopo l'indicazione del caso, mi diressi a spron battuto verso l'agognato gabinetto. Quello che trovai non era una Geberit dell'ultima generazione ma solo uno spazio relativamente grande, quasi all’aperto direi, dove al centro c’era un buco. Ecco. Stavo talmente male che non ci pensai due volte. Liberazione. La scala Mercalli era niente. Con gli occhi bagnati dallo sforzo e probabilmente dal dolore, si trattava ora di pulirsi. Questa volta i miei occhi si sgranarono per la consapevolezza che oltre al buco, c'era solo un secchio pieno d'acqua e nient'altro. Così con coraggio trovai il modo di pulirmi come potei. Di ritorno presso i commensali locali, feci cenno a Muriel che stavo meglio, ero comunque sempre bianco in viso. Spiegandole quanto successo, diedi la mia mano a Muriel e in quel momento iniziai nuovamente a ridere. Chiaramente le avevo accennato velocemente la mia piccola avventura.
I giorni trascorsi al nord della Thailandia, pur essendo stati bellissimi, mi avevano messo un po' in difficoltà. Per le mie esperienze pregresse di scoutismo ed essendo anche un militare non credevo di poter aver problemi al di fuori della civiltà.
Invece mi sbagliavo.
Madeira – estate 2008.
Ci furono diverse occasioni di viaggio in cui Muriel dimostrò la sua innata vivacità ma durante il viaggio a Madeira superò se stessa. Questo viaggio rappresenta ancora oggi un episodio epico nella nostra vita in comune.
Il piglio organizzativo di Muriel, non mi dava tregua. Le giornate erano sempre organizzate da lei in modo intenso. Ogni minuto aveva una determinata attività. A Madeira si trattava di passeggiate, una dietro l'altra. Avvertivo la stanchezza e il mio fisico chiedeva riposo.
Una sera, dissi a Muriel che l'escursione del giorno seguente l'avrei proposta io. Pianificai un'escursione un po’ pesante perché avevo il desiderio di far stancare la mia compagna affinché mi dicesse: «Alessandro, oggi facciamo un giorno di pausa».
Così nella bellissima cornice della piccola isola Portoghese, iniziammo l'ennesima escursione da me proposta. Sulla carta Muriel non si accorse della difficoltà e dell’impegno che la gita richiedeva; l’escursione prevedeva infatti diversi chilometri come di consueto facevamo solo che la scarpinata era caratterizzata da un dislivello molto evidente. Un grande dislivello.
Giunta la sera Muriel era distrutta. Lo ero anche io ma finalmente guardandomi fisso con i suoi occhi grandi mi chiese: «domani possiamo fare una pausa?».
Esultai in silenzio.
Quella vittoria però non durò molto. Come vedremo fu una vittoria di Pirlo!
Il giorno seguente decidemmo di andare al mare per un po’ di relax. Il cielo era coperto e io ero molto stanco. Arrivai in spiaggia, mi adagiai subito sopra un soffice asciugamano da spiaggia e trascorsi la gran parte della giornata sonnecchiando.
Ogni tanto mi sembrava di sentire Muriel che mi consigliava di mettermi un po' di crema. Consigli a cui non diedi nessun seguito, in quanto guardavo il cielo e questo era completamente coperto. In vita mia non avevo ancora fatto l’esperienza di scottarmi al sole.
Al nostro ritorno nella stanza d'albergo pensai che una doccia calda mi avrebbe caricato di energie ma appena sotto lo spruzzo dell’acqua iniziai a sentire un bruciore sempre più penetrante, fino ad iniziare a urlare. Uscii repentino dalla doccia iniziai a saltare sul letto. Muriel pensava che la stavo canzonando ma presto si rese conto che urlavo dal dolore per le scottature solari in tutto il corpo.
Muriel rise, rise tanto e con gusto. Io molto meno.
Ci misi diversi giorni per riprendermi. Ora non passano estati che la mia amata non rammenti questo piccolo episodio per canzonarmi.
In quella vacanza, ricordo bene, non ci furono più giorni di pausa. Avevamo praticamente scoperto quasi ogni centimetro dell'Isola. Fortuna che non era troppo grande.
E le 70 cartoline? No, non sono ricordi inviati durante i nostri viaggi.
In verità, iniziavo a pensare a Muriel come la mia compagna di vita e ciò mi portava a desiderare di sposarla. Il nostro matrimonio è stato un passo molto importante nella mia vita.
Mi feci trasportare dalla fantasia e iniziai a pensare a come potevo comunicare a Muriel il mio desiderio di sposarla.
La classica domanda: Mi vuoi sposare fu solo l’apice di una «operazione» durata diversi mesi. Muriel ricevette ben 69 cartoline rebus, inviate da diversi punti della Svizzera, che contenevano nomi e cifre che sarebbero servite per completare la settantesima e ultima cartolina, nella quale dopo aver risolto un rebus le pronunciavo la mia proposta di matrimonio.
Il matrimonio civile fu celebrato a Ligornetto (TI) il 17 aprile 2009, e subito dopo decidemmo di andare a Roma per una breve vacanza (17-21 aprile 2009).
Iniziare il nostro viaggio di vita insieme da Roma fu un passo quasi obbligato perché in quella stupenda città era iniziato il nostro amore.
La cerimonia religiosa ebbe luogo presso la chiesetta del Gubel (ZG) il 20 agosto 2009, dopo la quale fece seguito una breve fuga wellness a Tannheim, in Austria. All’appello mancava ancora il viaggio di nozze che programmammo per l’estate successiva, ovvero nel 2010. Destinazione Canada: da Calgary a Vancouver. Un viaggio eccezionale che ci portò a scoprire diverse regioni; Calgary, Banff, Jasper, Clearwater, Lac La Hache, Nanaimo, Victoria e Vancouver.
La nascita di nostra figlia Valentina fu un’altra pietra miliare nella nostra vita. Era l’8 settembre 2011.
Durante la gravidanza avevamo trovato quasi subito accordo sul nome femminile, mentre non avevamo mai stabilito un nome maschile nel caso non fosse nata una bambina. Il fiocco rosa era un mio profondo desiderio e così fu.
Prima della nascita di Valentina, decidemmo di aderire al progetto per la costruzione di uno stabile di tre appartamenti che avrebbe sostituito l’attuale casa dei genitori di Muriel. Il progetto consisteva in tre appartamenti separati che avrebbero occupato, i suoi genitori, suo fratello e la nostra giovane famiglia. Esperienza ancora oggi molto positiva.
A me è sempre piaciuto la vista del verde e delle montagne, mentre Muriel ha sempre amato la vista sul lago. Questa abitazione sembrò accontentare entrambi.
Il punto più significativo di questa esperienza è stata la coabitazione fra diverse generazioni. È una scelta che si è rivelata positiva e che credo possa essere presa come modello di riferimento da altre famiglie.
A prescindere dall’affetto familiare che si consolida, la vicinanza crea sostegno, solidarietà, sicurezza e confronto. Tra questi per me, la sicurezza è al primo posto, in quanto trascorrendo molto tempo fuori casa so di contare su una rete di rapporti familiari.
Il Ticino, continua a piacermi molto; amo ritornare nel cantone dove ho vissuto la mia infanzia, incontrare la mia famiglia di origine, curare la relazione tra Valentina e i nonni paterni. Conservo viva dentro me, la speranza che la lingua di Dante non venga dimenticata.

“cercare di dare il meglio di me stesso
in ogni momento”
Questo foglio non è un ricordo.
È un valore che ancora oggi conta molto per me.

(1) Campo estivo di Dalpe 1992
Sono entrato nello scoutismo nel 1979. Per uno scout fare la promessa, era - e spero lo sia anche oggi - un momento particolare, importante; ci si impegnava - di fronte a tutti gli amici e davanti a Dio - ad essere una persona migliore. Durante il bivacco di una sera nel campeggio di Dalpe, feci la mia promessa.
1992
Sono entrato nello scoutismo nel 1979 e per diciannove anni, questa scelta, mi ha accompagnato giorno e notte. Sotto certi aspetti ha sostituito, anche se parzialmente, la mia famiglia.
Quasi tutti i fine settimana e tutte le mie vacanze - un corso invernale, un corso pasquale e le due settimane estive - mi vedevano impegnato con lo scoutismo.
Mi è sempre sembrato di non aver tempo per altre cose.
Nello scoutismo ho vissuto 19 anni della mia vita. Le avventure erano scout, gli amici erano scout, le serate adolescenziali erano scout.
Quando iniziai lo scoutismo, c’era l’AGET - Associazione Giovani Esploratori Ticinesi- Rancate e il nostro “competitor” era l'AGET Mendrisio. Attraverso il gioco del calcio, che ci coinvolgeva per squadre, iniziammo a costruire ponti ideali tra sponde che sembravano lontane: a unirci fu lo sport.
In quel periodo arrivò inaspettato anche l’invito a partecipare ad attività con l’AEC - Associazione Esploratori Cattolici. Esperienza impensabile a quei tempi l’idea di unire insieme cattolici e non cattolici.
Durante i primi anni, ho imparato a conoscere oltre alla mia sezione, l’AGET, diversi campi cantonali, le collaborazioni con le altre sezioni AGET e anche con altre della zona. La zona Mendrisiotto contava alcune sezioni dell’AGET (Rancate, Mendrisio) e altre dell’AEC (Chiasso, Balerna, Castel San Pietro, Arogno, Stabio).
Anni ruggenti, dove caddero le barriere dell’ignoranza e della rivalità, nel senso che tutto ciò che non conoscevamo era di principio non buono (AGET vs AEC).
Tra le diverse attività ricordo una giornata di raccolta fondi per Telethon, nata da una idea mia e del mio amico Ciccio, durante un incontro al bar, che fruttò più di 10.000 franchi.
Momenti indimenticabili furono pure i due memorabili campi di zona in svizzera romanda nel 1990, con il tema portante degli indiani e quello del 1994 a Campo Blenio - che ebbi l’onore di dirigere - con il tema delle Nazioni.
Tanti sono i ricordi e le esperienze vissute in quel periodo che rimarranno indelebili.
Vi ricordate la nota pubblicità del pulcino piccolo e nero?
Bene, venni battezzato dagli scout proprio con il nome “Calimero”, abbreviato “Cali”. Questo derivava sia dai miei capelli nerissimi sia dal fatto che ero piccolo, anzi piccolissimo, rispetto ai miei coetanei.
Questo soprannome è ancora oggi vivo nei miei ricordi e come motociclista - all’età di 50 anni ho preso la patente per la moto e mi sono permesso una Harley-Davidson 1200 Sportster Custom! -lo porto ancora con tanto orgoglio.
Ho scelto e voluto divenire capo-sezione, perché a quel tempo era una scelta logica, direi naturale. Ero cresciuto, avevo preso una branca esploratori che a mala pena raggiungeva le dieci unità portandole ad una trentina. Il gruppo animatori della branca esploratori era coeso. E dopo tanti anni trascorsi a contatto con i giovani era giunto il momento di voltare pagina e assumermi l’intera responsabilità di tutta la sezione, che contava più di 130 persone.
Quando il periodo d’oro e le esperienze dirette terminarono, i miei compiti erano altri e volevo crescere. Tuttavia per la prima volta sentii il senso della solitudine.
Il mio amico Porcellino - che oltre ad essere amico era anche mio antagonista ma che fu anche il mio capo-branca e capo-sezione - era andato via ed io sentivo la mancanza del confronto con lui. Ore al telefono per discutere, fantasticare, scambiarci idee per fare questo e quell’altro, serate trascorse insieme per pianificare le attività.
In quel momento tutto divenne diverso ovvero avevo a che fare con un comitato, con quattro branche - lupetti, esploratori, pionieri e rover - con nuovi monitori, con i quali dovetti costantemente mettermi in gioco, relazionarmi e collaborare con persone nuove e con compiti diversi.
Ci furono scontri, accese discussioni, emozioni forti, legate tutte all’amore per la sezione scout di Rancate.
In quel periodo ricordavo spesso i tempi addietro quando anche il mio predecessore aveva avuto scontri violenti con i suoi collaboratori.
La sezione aveva conosciuto momenti bui ma con l’impegno e la coesione di tutti aveva conosciuto una buona stabilità e da piccola sezione eravamo cresciuti in quantità e qualità.
Con questi presupposti dunque volevo andare avanti e rendere ancora più vitale e forte la nostra sezione.
Verso la fine degli anni novanta, complice anche la mia presa di coscienza delle mie aspirazioni di vita professionale iniziai a pensare al distacco dal mondo scout. Ero stanco. Avevo cambiato lavoro, cantone, stavo per riprendere gli studi e volevo diventare ufficiale di professione. Troppo.
Ho sofferto molto e dopo le dimissioni ho tagliato completamente con quella realtà che mi aveva dato tanto ma che al tempo stesso mi aveva legato profondamente ad essa, quasi soffocandomi.
Mi sentii dunque immensamente libero. Libero di intraprendere il mio nuovo cammino.
Nello scoutismo ci sono state tantissime persone che hanno segnato il mio percorso e voglio ringraziare tutte.
Per motivi di spazio ne cito due: Mauro Mastrobuoni (Porcellino) e Yves Zappa.
Mastrobuoni detto Porc (Porcellino) è stato un grande amico, confidente e anche il mio capo. Siamo stati amici, nemici, ci siamo confrontati anche aspramente ma anche sostenuti. Per anni ci siamo visti regolarmente e durante la settimana le nostre telefonate sul futuro della nostra sezione erano interminabili.
Yves è stato il mio punto di riferimento per la logistica.
In quasi tutti i campeggi Yves era presente ed era il responsabile per la cucina. Yves era anche il mio barometro; quando esageravo si faceva sentire!
Sono molto grato a queste due persone con cui ho condiviso gli anni della mia prima giovinezza e che mi hanno permesso di progredire non solo dal lato personale ma anche nell’aspetto di leader. Grato sono anche a tutti i miei animatori e amici.
Abbiamo trascorso momenti gioiosi e non era facile andare d’accordo con me, lo so.
Eravamo tutti giovani e leali. Eravamo un bel team.

“finalizzavo le mie azioni alla crescita
indipendente dello scout”
Il rievocare non è solo ricordare ma apprendere dal passato e gestire il futuro potenziando il sé. È un esercizio che se fatto con attenzione da con certezza ottimi risultati.
1980
Quell’estate dei lontani anni ottanta partecipai a un campo estivo di tre settimane; la prima settimana fu programmata nella regione di Lenk (BE) mentre la seconda e la terza al CANA BULA 1980, che si trovava nella regione di Matten (BE)ovvero il campo nazionale degli scout Svizzeri. Il campo 1414 era riservato anche alla nostra piccola sezione.
Nel mondo scout il campo nazionale veniva considerato un evento importante da non perdere perché il successivo sarebbe stato organizzato dopo diversi anni.
Partimmo dalla stazione FFS di Mendrisio. Eravamo una ventina di esploratori della locale sezione dell’AGET Rancate (Associazione Giovani esploratori Ticinesi) e avremmo raggiunto dopo diverse ore la regione di Lenk-Matten nel cantone di Berna.
Pieno di eccitazione, con un sacco tubolare non molto comodo in spalla, un sacco a pelo e un paio di Clark ai piedi, iniziai il mio cammino di gruppo.
Questa semplice marcia, si trasformò ben presto in una avventura agghiacciante. I novanta minuti di marcia programmati divennero ore perché la nostra guida si rese conto che aveva sbagliato strada. L’aria già fresca divenne fredda e una fitta pioggia osteggiò il nostro cammino. Passo dopo passo, la comitiva iniziò a sparpagliarsi e io mi ritrovai da solo alla metà circa di questa ormai lunga colonna.
Piansi. Ero sconfortato.
Con la pioggia, le mie scarpe Clark sembravano barche piene d’acqua e iniziai a chiedermi cosa ci facessi li.
Verso l’imbrunire del giorno, intravidi il mio capo-sezione, Marcello Nyffenegger - purtroppo venuto a mancare successivamente all’età di 50 anni- fermarsi sul posto d’arrivo per organizzare la logistica del campo. Piansi nuovamente per la contentezza e gli corsi incontro quasi per abbracciarlo.
Tutto ebbe inizio l’anno precedente, precisamente nel settembre del1979. Mi ritrovai casualmente a parlare con Roberto, mio fratello, che mi accennò a un gruppo scout detto “gli esploratori”. Roberto mi disse che il gruppo si incontrava ogni fine settimana e che aveva avuto l’occasione di vederli portare una divisa; da ciò la deduzione che avessero diversi gradi e funzioni.
Alcuni di questi aspetti attirarono la mia attenzione, così decisi di incontrarli e da lì sorse la decisione di entrare a far parte degli scout, sezione di Rancate. Ricordo ancora che alla mia prima riunione - così veniva chiamato l’incontro del sabato - era presente una pattuglia di esploratori della città di Como.
La decisione di entrare negli esploratori, segnò la mia vita per i diciannove anni successivi e non solo.
Prima del campo 1980, stavo però per gettare la spugna.
Il gruppo era bello si, ma alcuni elementi facinorosi minavano la mia voglia di farne parte. Fu il contatto con la natura, le diverse attività pratiche e il restare distante da casa i fattori che mi spinsero a rimanervi.
Nel campo di CANA BULA 1980, era presente anche mio fratello Roberto.
Durante questo campo, avevamo anche la possibilità di raggiungere un primo livello scout. Ovvero la stella blu. I livelli erano tre; la stella blu, verde e rossa. Il raggiungimento del brevetto consisteva nel saper mostrare qualità tecniche legate al mondo scout.
Al primo campo Roberto raggiunse la prima posizione mentre io la terza. I responsabili, grazie all’interesse che mostravo e la grande voglia di fare, decisero di promuovermi come sotto-capo pattuglia. Ciò significava che dall’anno seguente sarei stato il secondo della mia pattuglia, composta da 5 a 7 scout.
Quel campo con Roberto fu bellissimo, ricordo i canti, le passeggiate, i ritrovi con altri bambini e ragazzi della Svizzera.
Non sentivo la mancanza di casa.
La vita da scout non contagiò Roberto quanto me e decise di non partecipare più alle riunioni per poi uscirne definitivamente.
1981
Questo campo estivo venne organizzato nella regione di Poschiavo (GR). Non era un campo nazionale, bensì di sezione.
Purtroppo in quell’occasione si verificò un episodio poco edificante: il capo sezione, per opinioni divergenti, giunse a una colluttazione con suo fratello, anch’esso monitore.
La capacità di mediazione, il rispetto e il buon esempio sono caratteristiche non negoziabili nel mondo scout.
Un altro episodio, rimasto nei miei ricordi, fu quando uno di noi recandosi al WC, vi cadde dentro. Da premettere che il cesso non era nient’altro che un buco con un’impalcatura in legno per sedersi, racchiusa da teloni militari. L’episodio riguarda uno scout che dopo essersi seduto su quello che doveva essere l’asse, vi sprofondò dentro, a causa del crollo della struttura dell’asse del cesso. Vi è mai capitato di vedere cadere qualcuno e ridere?
Davanti al malcapitato tutti risero!
Non ci crederete ma è stato proprio questo evento che mi portò successivamente a desiderare, per i futuri campi estivi, la costruzione di un bagno degna di un Re.
L’anno successivo ci fu l’eliminazione dei facinorosi; vennero tutti trasferiti dalla branca esploratori al nuovo gruppo Pionieri e ciò mi permise di diventare capo-pattuglia.
Si, la pattuglia era la mia. Ne ero fiero.
Era il 1982
Bosco Gurin (TI) fu il mio ultimo campeggio da esploratore. Stavo mangiando una purea di mela, quando il mio capo-sezione, Marcello Nyffenegger mi chiese se volevo diventare animatore.
Fui così sorpreso che quasi non credevo alle mie orecchie.
Avevo appena 13 anni e l’anno successivo (14) sarei diventato un monitore. Accettai con orgoglio.
A motivarmi fu il desiderio di costruire qualcosa che sentissi mio e il senso di responsabilità che tale ruolo richiedeva.
Iniziava così a delinearsi in maniera inaspettata e non convenzionale quel senso di appartenenza e responsabilità che oggi fa parte del mio essere persona, cittadino e professionista nell’esercito svizzero.
Mi chiedo a volte se con tale proposta, Marcello abbia rubato del tempo prezioso alla mia vita; tempo che magari avrei potuto dedicare ad altro. Ormai il dado è tratto - Alea iacta est!
Parole, ormai di uso comune, che Svetonio attribuì a Giulio Cesare, quando la notte del 10 gennaio del 49 a.c. varcò il Rubicone.
Con il mio assenso si apriva una nuova fase di vita: ero lì, pronto ad assumermi nuove e importanti responsabilità.
Ormai la decisione era stata presa e non volevo tornare indietro.
Quando divenni capo-sezione, finalizzavo le mie azioni alla crescita indipendente dello scout, all’assunzione delle responsabilità - a qualunque livello - e solo in seconda battuta intervenivo, seguendo lo schema sancito dal movimento scout svizzero.
Personalmente ho sempre dato molta importanza alla categoria esperienziale; ho sempre creduto e sostenuto che i capi-branca e i capi-sezione dovessero essere persone con un alto potenziale di responsabilità e di disponibilità verso la sezione e come pre-requisito avessero raggiunto una età tale da poter presupporre un buon livello di esperienza di vita.
Gli anni che intercorsero fra la prima esperienza di animatore fino all’assunzione della carica di capo-sezione dell’AGET Rancate furono importanti. In questi anni il mio carattere ebbe modo di forgiarsi e le varie esperienze vissute mi permisero di dimostrare anzitutto a me stesso, quanto sia importante non solo il sapere ma anche il saper fare.
Pretendere dunque l’esempio, ma anche saper essere l’esempio.
1985
Per la prima volta nel 1985 la “Spada Rover” riuscì a varcare il Gottardo per giungere fino a Rancate (TI).
Il Corriere del Ticino recitava: Rancate– La pattuglia “Ritardatari” degli esploratori AGET (Gianfranco Croci, Gianluca Croci, Susi Mastrobuoni, Alessandro Rappazzo) si è aggiudicata al “spada rover” in occasione dell’omonima manifestazione svoltasi il 7 ed 8 settembre a Zugerberg(ZG), che ha visto impegnati 900 rover provenienti da tutta la Svizzera, suddivisi in 160 pattuglie.
Certamente ironia della sorte, dato che Oberägeri si trova alle pendici dello Zugerberg (ZG), ora mia dimora.
Ma cosa è la spada rover?
Annualmente o quando un comitato si metteva a disposizione, i rover, gli animatori e i pionieri di tutti i cantoni si ritrovavano in un luogo sempre differente, per dar vita a un week-end di divertimento.
Le gare consistevano nella conoscenza e/o narrazione di eventi storici accompagnate da prove di abilità e produzioni teatrali.
La prima gara, che si svolse il primo giorno fino a tarda ora, consisteva in un percorso in cui si accumulavano dei punti partecipando a dei giochi spassosi, divertenti e pieni di fantasia.
Erano le 8.30 di sabato 7 settembre quando la nostra comitiva partiva e come prima tappa si fermava a Lucerna per accontentare i nostri insaziabili stomaci e anche per acquistare i Cazu.
Sapete cosa sono i cazu? Nulla di sconcio! Sono solo piccoli strumenti a suono di “cornacchia”. Immaginate le risate!
Dopodiché, partimmo verso lo Zugerberg (ZG) e montate le tende e formati i gruppi iniziammo il percorso a gara.
Alla partenza, decidemmo in quale momento del percorso avremmo utilizzato il nostro jolly: un brucone di pezza con due occhioni spassosissimi.
Già dalle prime battute della gara, il nostro gruppo fu considerato il più allegro. Cantavamo, ridevamo, scherzavamo.
Ricordo con gioia al momento in cui dovemmo inventare un balletto: in pochi istanti facemmo fatto andare in delirio la giuria grazie ai nostri cazu, alla nostra fantasia e a …. Oh Susanna!
Alla fine del ballo: “pravi pravi ticinesi, Hundert (100) Punkte!”.
Il nostro grido di battaglia, prima e dopo ogni punto era: “Siamo forti - Vinceremo (manca la melodia tatatataaaa, tatatataaaa). Proseguimmo la gara in un clima affiatato, coeso e determinato a vincere. Ma dietro l’angolo ci aspettava l’imprevisto. All’ultimo punto infatti ci perdemmo. Cammina e cammina e l’ultimo punto non arrivava mai. Presi infatti dall’euforia non ci accorgemmo di aver perso la strada. Pensate che l’ultimo punto era il punto del Jolly che in ogni caso ci fece raggiungere i 580 punti.
A causa della nostra “pascolatura” fuori programma arrivammo con un ritardo considerevole: elemento negativo che superammo grazie alla nostra estrosità, tenacia e dirompente gioia.
Il regolamento prevedeva che il gruppo che produceva un ritardo aveva la possibilità di recupero esibendosi con una canzone o uno sketch. Così un membro del gruppo, propose un acrobatico “aran ci ciap!!”. Quante risate!
La sera venne allietata da due complessi, uno Country e uno Jazz; non potrò mai dimenticare il complesso dell’AGET Rancate con Ginfra, Gianluca Lucio e Babs che salirono sul palco a suonare il Blouse e la Pantera Rosa, riscuotendo un enorme successo.
La domenica, dopo qualche momento di riposo, giungeva sempre l’ora della premiazione, preceduto da qualche minuto di riflessione e un simbolico scambio di foulard che era il simbolo delle sezioni, riportandone i diversi colori.
Diceva Ginfra scherzando:“Pronti a caricare lo Spadone?” Ribattevano altri: “Tanto mica vincerete!”.
Dopo tanti bla bla bla giunse l’annuncio assegnato al “Gruppo ritardatari del Canton Ticino”.
Lì per lì, credevamo di essere giunti terzi ma non era così.
Avevamo vinto! Ci classificammo primi!
A gran voce: “Ip ip urra, urrà!”
Lascio a voi immaginare la gioia di aver vinto un così ambito trofeo per gli scout. Fu così che il nostro inno di battaglia si tramutò in: “siamo forti … abbiamo vinto!” e il seguito della melodia “tatatataaaa, tatatataaaa”.
Il nostro rientro a Rancate fu un vero clacsonare e cantare. Mostravamo con orgoglio a tutti il nostro spadone di ferro che per un anno sarebbe rimasto nella nostra sede per finire un grande Aran Ci Ciap!
Il gruppo era composto da Ginfra (radiolina 24/24/, Babs, rappresentante dell’AGET Vedeggio), Calimero (il sottoscritto), Susi e Gianluca. Al raduno erano presenti 900 scout, suddivisi in 160 pattuglie e 300 organizzatori. Per noi il primo posto fu veramente un grande successo.
Oggi posso dire con orgoglio che la formula del successo in quella occasione di gara fu l’intreccio di “coesione e passione”, condizione necessaria affinché un team di persone, in qualsiasi contesto si trovi, intenda raggiungere un obiettivo prestabilito.
1986
Avevo 19 anni, dal 12 al 26 luglio, fui chiamato al mio primo campo in cui fungevo da responsabile della branca esploratori dell’AGET Rancate. Come sezione eravamo partecipanti al campo cantonale “AGET Natura 86” in Valle di Blenio.
Ne ero orgoglioso, avvertivo il senso della responsabilità sulle mie spalle anche se sapevo di poter contare su persone del comitato della sezione.
Appena iniziato il campo quando accadde il primo imprevisto! Una ragazza voleva ritornare a casa. Voleva andare via subito! Ho dovuto rincorrerla per tutto il perimetro della pianura e convincerla a rimanere. Non è stato facile. Forse è più facile gestire un plotone che una ragazza che ha deciso di fuggire!
Ironia della sorte diversi anni più tardi, durante l’estate del 1992, ero responsabile sempre nella zona di Campo Blenio di un campo della zona Mendrisiotto in cui i partecipanti erano all’incirca trecentocinquanta suddivisi in diverse sezioni.
Compresi proprio in quella occasione che l’accumulo delle cariche non era assolvibile. Ero responsabile del campo della branca esploratori, responsabile della zona del Mendrisiotto e anche coordinatore del campo. Capii di “aver messo troppa carne al fuoco”.
La lezione produsse le mie dimissioni dall’incarico di coordinatore della Zona, una volta assunto la direzione della sezione. Correva l’anno 1994.
Operazione “Blinker”.
In qualità di responsabile avevo organizzato con i ragazzi un’escursione con l’intenzione di comunicare tramite della luce da due montagne, ovvero il Monte San Giorgio e il Monte Generoso.
Prima dell’escursione i diversi gruppi si erano impegnati a costruire un apparecchio e ad esercitarsi con l’alfabeto morse che sarebbe servito per trasmettere dei messaggi. Avevamo pianificato in dettaglio l’escursione e così come da programma i due gruppi raggiunsero a piedi la meta, prepararono il cibo, montarono le apparecchiature e attesero la sera.
A quel tempo non esistevano ancora gli iPhone.
All’imbrunire, sotto un cielo stellato iniziarono le trasmissioni. Bellissimo vedere come da diversi chilometri di distanza eravamo in grado di trasmettere brevi messaggi. Terminato e raggiunto l’obiettivo, andammo tutti in tenda. Presi la mia chitarra e intonammo i diversi canti scout.
All’improvviso – eravamo nel bosco – sentimmo dei passi sospetti e delle luci che venivano nella nostra direzione.
Dopo una prima reazione di paura, con nostro grande stupore, si affacciarono 2 poliziotti. In valle, alcuni abitanti messi in allarme dalle diverse luci in montagna, avevano allertato la polizia che prontamente era corsa sul posto a controllare.
Potevo ritrovarmi un occhio blu ma me la cavai con una stretta di mano e l’avvertimento che la prossima volta avrei dovuto informare le autorità locali.

“Da lì seduto
cercavo di immaginare il mio futuro”.
La mia vita lavorativa iniziò così con un lavoro semplice da impiegato di commercio presso il datore di lavoro dove avevo svolto il periodo di apprendistato, per poi proseguire nell’esercito svizzero per giungere a ricoprire il ruolo di ufficiale professionista.
In verità sin da bambino desideravo dirigere una banca, mi piaceva immaginarmi direttore. Un uomo che sapeva organizzare e condurre un Istituto di Credito.
Crescendo, mi convinsi che potevo ben diventare direttore di una banca con un apprendistato e poi sarebbe bastato lavorare molto e bene.
Gli anni 90 portarono però molti cambiamenti e mandarono in frantumi l’ormai prassi consolidata dell’iter di carriera all’interno delle strutture organizzative delle Aziende. La formazione era in fermento e per raggiungere il successo bisognava possedere diplomi e certificati.
Divenne quasi indispensabile studiare alle Università per accedere a carriere di successo e giusto o sbagliato che potesse sembrare tale cambiamento, era la realtà.
Altro fattore nuovo degli anni Novanta fu l’ondata dei baby-manager.
L'ordine costituito, la continuità, l'esperienza vennero meno per lasciare spazio ai giovani manager mordi e fuggi. Ho vissuto in prima persona questi mutamenti. Difficile per me dare una opinione su di essi.
Sicuramente il continuo sviluppo tecnologico e la globalizzazione furono elementi importanti che portarono a una trasformazione del mondo del lavoro sin dalla fine del secolo scorso.
Ho iniziato e fatto le mie prime esperienze professionali in un mondo figlio della Guerra Fredda, fui testimone del grande cambiamento e capovolgimento dell'ordine costituito all'indomani della caduta del Muro di Berlino.
Oggi la necessità di avere una certificazione è consolidata, come pure l'idea di un perfezionamento continuo ma quando io mi affacciai nel mondo del lavoro non era necessario avere un titolo universitario o forse ne ero convinto io.
In quel periodo tutto ciò che non ritenevo necessario non era per me prioritario. Punto e basta.
Il mio apprendistato durò 3 anni (1982-1985). Vi racconto come è andata.
Il 1981 era stato un anno difficile. I miei risultati scolastici non si rivelarono brillanti e quando cercai di porvi rimedio purtroppo era troppo tardi e non riuscii a recuperare.
Così intrapresi la via dell'apprendistato. Correva l’anno 1982.
Il disappunto sul viso di mio padre, era più che evidente ma io non desideravo assolutamente continuare a studiare ed ero convinto che lavorare era quello che volevo fare.
A quel punto, mio padre fu costretto ad attivarsi per trovarmi un posto d'apprendista.
Il mio primo colloquio di lavoro presso un'agenzia di viaggi, non andò a buon fine. Pensai però che ero stato fortunato perché in quell’agenzia avrei dovuto lavorare anche di sabato. Io non potevo assolutamente. Avevo i miei impegni con gli scout!
Successivamente partecipai a uno stage di una settimana, presso il garage Zarattini che divenne la mia famiglia per i quattro anni a seguire. Tre di apprendistato e uno in qualità di impiegato.
Per il primo giorno del mio apprendistato presso il Garage Zarattini, concessionario della Mercedes e della Peugeot a Mendrisio, decisi di prepararmi e vestirmi con molta attenzione.
Scelsi una bella camicia ma rifiutai di indossare la cravatta. Arrivai in anticipo alla stazione e poiché il garage era a qualche centinaia di metri da questa, mi sedetti su una panchina.
Da li seduto cercavo di immaginare il mio futuro.
Il mio rendimento scolastico, in quel contesto lavorativo era più che decoroso ma il direttore, figura paterna all'interno dell'azienda, mi teneva sempre sott'occhio. Fu un bene per me.
Durante il mio tirocinio imparai tantissimo. Riuscii a conseguire il diploma di impiegato di commercio ed ero attivo nella vendita e nella consulenza ai clienti.
Durante il periodo di tirocinio, mi furono assegnati diversi responsabili nella funzione di segreteria d'ufficio, in quanto per un motivo o per l’altro andavano e venivano...C'è chi è durato più a lungo, chi meno. Il record è stato quello di soli sei mesi. Questi cambiamenti a volte repentini nella gestione del personale, mi dettero la possibilità di crescere maggiormente, assumendo durante il tirocinio responsabilità più alte e variegate.
Fra le mie diverse mansioni vi era la corrispondenza e l’assistenza ai clienti e la contabilità della cassa che dovevo regolare manualmente.
Mi specializzai nella riscossione dei crediti insoluti.
Come un segugio, mi occupavo dei richiami per i mancati pagamenti e mi specializzai nella compilazione dei precetti esecutivi. Ve lo garantisco, ne facevo parecchi.
Il lavoro mi piaceva e al termine dell’apprendistato, decisi di rimanere. Il mio salario iniziale era di 1800 franchi.
Avevo imparato a creare relazioni di fiducia, eseguire i lavori in maniera indipendente, essere flessibile e sapersi adattare.
Un giorno - agli inizi del mio apprendistato il signor Zarattini mi disse che il mio guardaroba era assai fuori moda. A me non sembrava! Ma fu così convincente che decisi, durante un fine settimana di recarmi con la segretaria in Italia al fine di rinnovare il mio guardaroba.
Probabilmente a casa mancava la grazia e l’eleganza femminile!
In quel periodo ero anche molto intraprendente e non sempre le mie iniziative, furono apprezzate. Un giorno capitò la necessità di fare firmare un documento urgente. Il direttore era assente e io ero il solo in ufficio. Si trattava di un bonifico.
Così esercitai la firma del direttore per una buona mezz’oretta. Poi con disinvoltura, firmai il documento. Al suo rientro, chiaramente lo informai dell'accaduto e di quanto avevo fatto. Mi beccai una bella ramanzina. Sicuramente più dovuta che cercata.
Un altro giorno, per una vendita di una vettura, incassai 30 o 50.000 franchi in contanti. Non volevo lasciare il denaro in cassa e decisi autonomamente di portarli in banca. Misi il denaro dentro la mia camicia, presi il mio motorino “Ciao” e volai letteralmente in banca per effettuare il deposito. Anche questa mia iniziativa, seppur motivata da sane intenzioni, non fu molto gradita!
Altro episodio non proprio fortunato, fu all'indomani della mia decisione di acquistare un casco per il motorino - allora non era ancora obbligatorio.
Un paio di settimane prima, mi ero infortunato andando a urtare contro un muro con il motorino. In seguito a questo incidente dovetti trascorrere alcuni giorni in ospedale. Ebbi fortuna, in quanto un attimo prima della collisione, avevo istintivamente messo la mano davanti per proteggermi. Me la cavai con uno shock, un lieve trauma cranico e diversi lividi alle ginocchia. Ma cosa c’entra con il posto di lavoro?
C’entra. Era la fine del mese e come al solito avevo ricevuto la mia piccola busta paga. Ammontare che avrei investito per acquistare un casco. Ma proprio quella volta dimenticai lo stipendio sulla mia scrivania e proprio quel week-end, qualcuno aveva deciso di penetrare negli uffici, alleggerire la cassaforte e arrotondare con la mia busta paga.
Così il casco, mi costò un sacco di soldi.
Come potrei dimenticarlo!
Giunto alla fine del mio tirocinio a cavallo con l'inizio del mio primo impiego, intervennero due situazioni che a medio termine dettero nuovi impulsi alla mia giovane esperienza professionale.
Mi riferisco alla morte del figlio del titolare e alla vendita del garage ad un facoltoso imprenditore.
Il vecchio direttore, nonché ex titolare vendendo il garage, era rimasto a disposizione della nuova gerenza come consulente.
Nella direzione del garage, il nuovo proprietario era maggiormente attivo su più e diversi fronti e si era affidato ai suoi delfini. Preciso meglio: un delfino e un cagnolino.
Il primo aveva sempre un atteggiamento da superiore mentre il secondo era di completa ubbidienza al primo.
Nel frattempo venne effettuato un altro cambio in ufficio. L'ennesima segretaria si apprestava ad affrontare la nuova sfida. Questa era tosta. Io anche. Era molto capace e organizzata. Anche io però volevo il mio spazio. Con lei ebbi un po' di screzi mantenendo sempre e comunque un sano e reciproco rispetto.
Con il trascorrere dei mesi, la struttura si era ingrandita e al team si era aggiunto un apprendista.
A fronte di un ampliamento degli spazi lavorativi, avevo ricevuto un nuovo ufficio ai piani superiori ed ero anche il supervisore dell'apprendista. Le mie mansioni principali erano la fatturazione e tutto ciò che era legato ad esso.
Il 28 febbraio 1986, conseguii la mia patente di guida. E cosa c’era di più bello per un giovane che lavorava in un garage? Semplice: guidare. In quel periodo avevo avuto la possibilità di provare, guidare moltissime auto. Dalla più economica alla più lussuosa. Un giorno, dovendo riorganizzare il deposito delle vetture, mi trovai a spostare un'auto da 80.000 franchi.
Niente di strano, se non il fatto di essermi messo in un piccolo guaio. Mi ritrovai con una ruota a mezz'aria e la vettura in una posizione difficile da rimettere a suolo. Mi gridò a gran voce il signor Zarattini: "Ma dove hai preso la patente?".
Una bella notizia in quel periodo fu quella che grazie all'aiuto di mio padre, forse stufo di dovermi sempre prestare la sua auto, acquistai una stupenda Alfa Romeo 33 d’occasione e super accessoriata.
Il tempo trascorreva lento, la monotonia si era impadronita della mia giornata. Il delfino, il cagnolino e il suo dog sitter, erano sempre più figure a me estranee.
Non vedevo una via d'uscita.
Un giorno mentre ero in ufficio da solo, non stavo molto bene e appoggiai la testa sulla scrivania. Avevo mal di testa.
All’improvviso mi trovai di fronte il proprietario. Mi chiese se stavo male. Lo guardai, aveva il viso dai tratti tirati e preso dal timore di quella sua espressione risposi che andava tutto bene.
Dopo un attimo di sguardi sospesi, lui andò via.
Alcuni giorni dopo parlando con l'ex direttore, appresi che il boss non era contento di quello che aveva visto di me.
Da quell'evento potei gettare le basi del mio successivo cambiamento. Dopo alcune settimane, rassegnai, anche se un po’ a malincuore, le mie dimissioni.
Stranamente mio padre accettò la mia decisione senza battere ciglio. Probabilmente aveva colloquiato con l’ex direttore.
La mia nuova destinazione era Soletta. Volevo imparare il tedesco. Questa decisione mi fu molto utile per la mia successiva sfida: la scuola reclute.
In verità la ricerca del lavoro non fu per nulla una passeggiata. Dopo alcuni tentativi senza successo, approdai alla Panalpina di Chiasso, nell’ufficio Import/Export continentale.
Fu importante per me il fatto che il mio datore di lavoro mi permetteva di seguire la scuola sott’ufficiali e in seguito la scuola ufficiali.
Furono anni intensi, fra l’ufficio e il servizio militare.
Imparai tantissimo. Ricordo che mi recavo spesso in dogana per eseguire gli sdoganamenti. Ci misi poco tempo per divenire il braccio destro del mio capo-ufficio. Questi, il Signor Braun era anche amico di famiglia ma in tutti questi anni ci davamo sempre dati il lei. Cosa che non mi dette mai fastidio, anzi lo trovavo molto rispettoso! Ancora oggi stimo molto il Signor Braun per tutto ciò che fece per me.
Nel 1991, chiesi e ottenni di andare alla Panalpina di San Gallo. Volevo progredire, imparare e conoscere cose nuove. Fu quest’ultima una bella esperienza, purtroppo corta.
Durante un corso tecnico con l’esercito, mi stirai nuovamente la caviglia; purtroppo, mi era già capitato nel campo di Stein am Rhein (SH) del 1985, mentre giocavo a tennis, durante un campo scout.
Questa volta però finii direttamente all’ospedale italiano a Lugano, dove fui operato. A quell’epoca ero già ufficiale con il grado di tenente dell’Esercito Svizzero.
Al termine del pagamento del grado di tenente, rientrai a Chiasso.
Gli anni novanta furono proprio gli anni del cambiamento, quello dell’assunzione dei baby-manager e anche la Panalpina non sfuggì a questa moda. Il turn-over dei collaboratori, molto fedeli all’azienda, iniziò ad essere più veloce.
All’indomani della comparsa di un giovane direttore e del suo seguito in Panalpina, la vecchia dirigenza fu messa in ombra e io accettai di essere spostato alla Panalpina di Manno dove assunsi dei compiti con maggiori responsabilità.
Tuttavia la nuova dirigenza non mi piaceva. Mi sembrava fosse tutto fumo e niente arrosto. Più precisamente ritenevo che fossero portatori di tante idee belle e innovative ma che successivamente nella loro realizzazione queste venivano lasciate al caso.
Una sera – ero ancora a Chiasso – dissi al nuovo direttore e alla sua segretaria, mentre eravamo a cena davanti ad una buona pizza - mi aveva invitato a cena - che mi sarebbe piaciuto lavorare nel reparto mare/aereo import. Detto fatto.
A Manno assunsi questa responsabilità pur senza avere alcuna esperienza! Mi salvò, con grande fatica, il fatto di essere metodico e organizzato.
Mi resi subito conto che ero in mezzo a un oceano con un solo piccolo, piccolo salvagente.
Per sabati e sabati, senza essere ricompensato, mi ritrovai insieme ai quadri dell’azienda, spesso riuniti in un albergo del Luganese per pianificare la nuova Panalpina.
Mi sentivo anche io responsabile mentre le ore supplementari si accumulavano, senza alcuna ricompensa.
Un giorno accadde il peggio. Quel peggio che mi portò dritto alle dimissioni.
Ero assorto in un colloquio telefonico con un soldato che aveva un problema per il corso di ripetizione, quando il tirapiedi del direttore – una insignificante persona – piombò nel mio ufficio.
Al termine della mia conversazione telefonica mi disse che i telefoni non dovevano essere usati per le mansioni durante l’orario d’ufficio.
Considerando che io ero sempre presente in ufficio alle 07:30 e terminavo spesso ben dopo l’ora canonica contrattuale, mi venne naturale la risposta: “Bene, allora dovrei anche terminare ogni sera alle 18:00? e riprendere alle 08:00?”.
Evito di riportare la continuazione dell’animata discussione.
Sempre nello stesso periodo, dopo l’ennesima sessione per il budget terminata in orari improponibili, ricordai al direttore che da lì a un anno sarei dovuto entrare in servizio per il pagamento del grado di capitano. Non voleva.
Per lui - non uno svizzero - era inconcepibile. Tollerava già molto male le mie assenze militari di 4 settimane all’anno!
Risposi semplicemente che avendo preso un impegno, lo volevo rispettare. Alcuni mesi dopo mi licenziai!
Eccomi dunque alla ricerca di un nuovo lavoro.
L’articolo apparso su un giornale ticinese sembrava fatto per me: “Cercasi disponente d/i, per gestire la disposizione del carburante nel Cantone Ticino. Luogo di Lavoro Baar, cantone di Zugo. In men che non si dica mi convocarono per il colloquio di assunzione. Zack! Il posto era mio.
Durante le mie vacanze estive, lessi sul giornale che in Ticino la Shell aveva ceduto le attività di disponente ad una ditta del Mendrisiotto.
E se 1 più 1 non fa 3 … telefonai alla Shell direi abbastanza preoccupato. Ma mi fu detto che il mio posto era assicurato. In poco tempo avrei avuto la responsabilità della gestione e della disposizione del carburante della Svizzera fra la regione di Berna e Ginevra e del bitume per tutto il territorio svizzero. La cosa ancora più bella è che malgrado il ravvicinato e previsto pagamento del grado, questo non costituiva nessun problema.
La mia permanenza alla Shell doveva essere più lunga, ma non fu così.
Mi trovai benissimo, in poco tempo ero anche diventato capo-team. Sentivo però la mancanza di qualcosa. Da ormai troppo tempo mi sentivo dire che ero un bravo collaboratore. Capii che ciò che mi mancava era un certificato. Un certificato formativo di studio superiore. Un fottutissimo certificato!
Il certificato in quel tempo era diventato quasi una moda. Per ogni cosa ci voleva un certificato.
Così durante il pagamento del grado presi la decisione. Volevo raggiungere la maturità e dopo avrei deciso se seguire la via dell’ufficiale professionista, oppure iscrivermi alla Bocconi di Milano.
Fu così che al mio rientro dal pagamento del grado mi licenziai. Il colmo fu che nello stesso momento la Shell mi propose di andare in Belgio per un progetto-test, nel quale si voleva testare la distribuzione del carburante in modo centralizzato.
La proposta mi allettava. Molto.
C’era però la questione della maturità. Volevo la maturità. Quello che mio padre non era riuscito ad ottenere prima, ci riuscì la Shell!
Quando comunicai la decisione a mio padre, quasi gli venne un infarto, tuttavia mi aiutò. Tornai così alla casa paterna. Un porto sicuro da dove intrapresi il mio nuovo viaggio.
Terminai la maturità brillantemente. Avevo sete di sapere.
Dopo questi studi scelsi di divenire ufficiale professionista. Con questa decisione, terminò la mia esperienza professionale da civile.

“Sono cambiato,
perché ho saputo leggere non solo il presente
ma anche il futuro”.
Quando decisi di iniziare presso l’esercito, i responsabili dell’ufficio del personale, avevano rilevato che non potevo essere assunto, in quanto avevo conseguito una maturità commerciale, mentre per accedere al politecnico era richiesta una maturità tecnica. Bel pasticcio!
Dato che però l’errore non era stato il mio, in quanto li avevo informati chiaramente sull’intenzione di studio e grazie anche all’intervento del mio comandante di reggimento, accettarono la piccola frittata.
Fui assunto. Ma le serate trascorse a casa a studiare fisica, matematica e altro ancora, non le potrò mai dimenticare. Avevo infatti dovuto fare un semestre “passerella”, per poter accedere al politecnico federale di Zurigo.
Avevo però iniziato ad apprezzare e amare Freud, soprattutto la lettura del suo libro “Il processo”, mi aveva letteralmente motivato a fare meglio.
Al termine di questo breve ma intensissimo semestre, il direttore si era personalmente congratulato per la mia riuscita.
In effetti aveva avuto i suoi ben seri motivi per essere preoccupato sul mio eventuale successo.
I tre anni trascorsi presso l’accademia militare al politecnico federale, sono stati, praticamente fantastici. Ho letto tantissimo, ho imparato tantissimo. Ho avuto anche le mie difficoltà. Il mio tedesco non era dei migliori e a volte dovevo impegnarmi maggiormente accontentandomi però di risultati discreti. Ormai avevo capito che dovevo impegnarmi sempre. Lo facevo per me.
La decisione di conseguire la maturità aveva innescato un modus operandi che ancora oggi è vivo.
Apprendere e migliorarmi, scoprire nuovi orizzonti.
Per sopperire alle mie debolezze, in questi anni di studio avevo imparato a canalizzare le mie forze e in questo modo miglioravo notevolmente la preparazione per i diversi compiti o lavori. Il diploma era diviso in due parti; gli esami e il lavoro di diploma. Le lunghe serate trascorse nella vecchia sede dell’accademia militare a Wädenswil soprattutto con Olivier, diedero i suoi frutti.
Tutto sommato potevo dirmi molto soddisfatto.
Così è stato anche per il mio lavoro di diploma al termine dei tre anni di studio. Già all’inizio del terzo anno e ben prima dell’inizio della fase del lavoro di diploma, avevo già delineato quello che poteva essere il mio tema di ricerca. Mi ero già informato, raccolto la necessaria bibliografia e iniziato a leggere articoli pertinenti.
Con il senno di poi, un piano quasi perfetto: dalla preparazione, alla fase di concezione, di studio, di redazione e di correzione.
Il professore era a disposizione per aiutare il diplomando, ma ero ben cosciente che il troppo contatto, avrebbe inciso sulla nota finale. Quindi mi limitai ai termini obbligatori.
Anche la correzione ortografica e stilistica del testo, trovò uno spazio ben definito. Per la stesura del testo, rimasi nel mio piccolo appartamento a Meride, dove coniugavo lavoro e sport.
Ero concentrato. Concentratissimo.
Il risultato fu un 5.5. Volevo un sei.
Dove avevo sbagliato? Avevo corretto tutto quello che c’era da correggere in italiano. Avevo dimenticato però di controllare accuratamente le poche citazioni in inglese. A volte i dettagli contano.
Avevo imparato una nuova lezione.
Nel frattempo il mondo dell’istruzione si era ancora evoluto. Lo studio era importante ma assumeva o stava assumendo nuove forme. La formazione richiesta, era continua.
Dopo il diploma di ufficiale professionista, era questa la mia nuova sfida. Poter migliorare ancora.
Non era facile, il mondo militare a quell’epoca non era ancora pronto. Quante volte ho dovuto incassare, risposte negative. Ma la perseveranza ormai era divenuta un mio punto di forza.
Così in questi anni, oltre a seguire corsi di avanzamento, avevo ottenuto la certificazione quale capo progetto e fra il 2014 e il 2016 assolvevo il mio executive MBA.
La mia voglia di continuare negli studi ancora oggi non si è ancora assopita. Il bambino che ero, insicuro perso fra le nuvole, ha lasciato posto ad una persona più sicura delle sue capacità.
Può sembrare ovvio, forse scontato ma non lo è.
Ho sofferto ma ho saputo sempre affrontare le mie sconfitte per migliorare. Non volevo studiare è vero, sono andato contro le intenzioni di mio padre, si è vero. Ma allora non vedevo il senso, la necessità. Non avevo capito il perché.
Sono cambiato, perché riuscii a leggere non solo il presente, ma anche il futuro. A quel punto presi delle decisioni. Sono uscito dal gregge e ho iniziato ad esplorare il mondo da solo.
L’ironia di quanto vissuto, sta nel semplice fatto che fino a quando mio padre voleva io non volevo, quando volevo, lui non se lo aspettava.
Se mi chiedete cosa vorrei fare oggi, adesso, la risposta potrebbe essere semplice. Licenziarmi e ributtarmi dietro ai banchi di scuola per proseguire altri orizzonti di sapienza.
Oggi però a differenza di più di vent’anni fa ho una meravigliosa famiglia e sulle mie spalle gravano ben 53 candeline. Un po’ di accortezza quindi è d’obbligo.
Come ufficiale dell’esercito, ho la grande fortuna di poter andare in pensione all’età di sessant’anni. Così ora ho tanto tempo per pensare a cosa farò da grande!

“Iniziare con il perché diventò per me un metodo,
una sorta di religione”
Dopo aver sostenuto con successo i colloqui per l'assunzione, e ottenuto la maturità commerciale, ero pronto per iniziare la mia nuova sfida professionale che mi avrebbe definitivamente allontanato da casa.
Il primo di luglio del 1997 iniziavo presso la scuola reclute delle truppe del sostegno di stanza a Berna.
Nel frattempo, avevo ricevuto, presso il parco veicoli di Bellinzona la mia prima vettura di servizio, una Opel automatica bianca con la targa militare.
Non ebbi tempo per cercare un appartamento per me e per questo motivo, tramite un ufficiale della mia compagnia, accettai di soggiornare presso un appartamento di un suo parente nella vecchia città di Friborgo, finché non mi fossi organizzato.
La prima sera però andò già tutto storto.
Dopo essere arrivato a Friborgo da Berna, dovevo trovare l'appartamento. Avevo solo l'indirizzo e la chiave.
Già la chiave! La chiave era rimasta al comando scuola di Berna. Ero stanco. Fuori da casa e senza chiavi. Non avevo più voglia di ritornare a Berna, quindi - data anche la tarda ora - mi fermai in un'area di sosta e mi appisolai qualche ora.
Episodio da mettere nel solaio dei miei ricordi e dimenticare!
Conoscevo lì gran parte del personale insegnante, poiché durante l'inverno del 1995, avevo conseguito il mio pagamento del grado per diventare capitano e successivamente durante l'estate del 2000 avevo effettuato un servizio pratico come istruttore d'unità presso la stessa scuola.
Mi fu assegnata la responsabilità di una compagnia stazionata a Grosshöchstetten (BE).
Il team di professionisti veniva completato dall'aiutante sottufficiale Andreas Lang.
Andreas era una persona che conoscevo, in quanto era il mio sergente maggiore d'unità durante il mio pagamento di grado come caporale.
Nel 2001, memorabili furono le sue poche parole, nei dintorni di Grosshöchstetten (BE)dove era di stanza una delle compagnie della scuola reclute: "Alessandro, mi aspetto da te che mi conduci!”. In altre parole Lang mi stava dicendo che io ero il capo e di conseguenza dovevo assumermi la responsabilità!
Era il 21 ottobre 2002 e mancava poco meno di una settimana al termine della mia seconda scuola recluta come responsabile di un’unità ovvero come istruttore.
Alcuni ricordi mi rimandano alle esperienze antecedenti al diploma di istruttore. Mi sentivo molto a mio agio.
Il lavoro e l’impegno con una alta presenza verso la truppa, non mi faceva paura, anzi mi stimolava. Sentivo che la mia leadership e forse l’empatia del sud della Svizzera veniva accettata dagli uomini.
Pur rispettando le norme vigenti, i regolamenti e gli ordini che mi furono dati, ebbi la possibilità di rompere alcuni schemi che mi sembravano ormai obsoleti.
Per allenare e aumentare la sicurezza della truppa non avevo lesinato nell’impegnarmi ad ottenere materiale supplementare, normalmente fino ad allora, non attribuito alla truppa della logistica. Potei così impiegare dei container per alloggiare al meglio la guardia e utilizzare delle barriere (territoriali) per delimitare la zona.
Oltre al materiale che mi portava via molto tempo e costava parecchio lavoro amministrativo supplementare e anche parecchie discussioni con i mulini a vento, cercavo di mettere in pratica anche le nozioni apprese come ufficiale di milizia e allievo all’accademia militare.
Mi ero impegnato con successo per fare in modo che la mia compagnia rompesse gli schemi, effettuando settimanalmente un breve soggiorno presso infrastrutture civili. Intendevo dare la possibilità ai quadri e alle reclute di sviluppare un senso di comunità e imparare ad organizzarsi e vivere in contesti nuovi.
Probabilmente da un punto di vista puramente tattico non aveva gran senso ma visto da una prospettiva umana e organizzativa ciò era estremamente coinvolgente, arricchente e faceva crescere il senso di appartenenza di ogni soldato e quadro.
Dal punto di vista dell’istruzione del combattimento, stavo riuscendo a far capire nel mio ambiente che anche il soldato della logistica era principalmente un soldato. Così avevo aumentato la pressione dell’istruzione e aggiornato il materiale (un terzo magazzino munizioni come dotazione di base per esempio).
Ovviamente tutto ciò che era nuovo, veniva per default osteggiato. E fu proprio questo, quel che accadde.
Io ero un vulcano di idee e azioni e considerando che tutto ciò che è nuovo, fa paura, mi ritrovai ad affrontare non poche resistenze. Anche se piccolo di statura, avevo intuizione e idee innovative, ero coerente e il comandante di scuola mi lasciava una certa libertà di manovra.
Ogni mia scelta partiva dal “perché”.
Iniziare con il perché diventò per me un metodo, una sorta di religione. Il container, la barriera territoriale, il terzo magazzino, di primo acchito, costituivano dunque solo “il cosa”.
Il perché non orientava solo le mie azioni ma anche la ricerca di cose diverse.
Un piccolo aneddoto riguardò il “magazzino del fucile”.
Da quando avevo iniziato la scuola recluta, durante la guardia con la munizione da combattimento, ricevevamo un magazzino con 5 colpi.
La mia mente continuava a chiedersi come mai il magazzino che poteva contenere circa 20 colpi ne venisse riempito unicamente con 5. Perché?
Questa domanda mi assillò per molto tempo.
Fino a quando un giorno ebbi la risposta.
Il predecessore del fucile d’assalto svizzero (Fass 57) era il moschetto. Ebbene il moschetto conteneva solo cinque colpi e nell’aggiornare le procedure il numero 5 era rimasto assodato. Ecco spiegato il “perché” che tormentava la mia mente.
Con il nuovo fucile d’assalto (Fass 90) ero riuscito, almeno nel mio settore di competenza, a rompere questa situazione.
Oggi è la norma.
Non voglio certo credere o farvi credere che la norma sia cambiata grazie a me. Rimanevo solo orgoglioso di aver anticipato il cambiamento di qualcosa assunta poi a norma.
Volevo rompere gli schemi. A volte ci sono riuscito a volte ho sbattuto la faccia contro il muro.
Il 29 ottobre 2002 terminò definitivamente la mia seconda esperienza come istruttore d’unità.
Ero soddisfatto per aver raggiunto principalmente due obiettivi. Il primo era la certezza che al termine del servizio pratico, ogni capogruppo (caporale), avesse imparato qualcosa di nuovo ed essere degnamente licenziato dal servizio. Il secondo si riferiva e ruotava intorno al ruolo degli ufficiali che pagavano il grado.
Attuai una sempre mirata e severa critica, impegnandomi in prima persona ad accompagnare gli uomini durante il percorso dell’istruzione, proponendo esperienze forti che potessero completare o aumentare il loro bagaglio di esperienze anche nell’ambito della condotta.
Mi ricordo, che al termine della scuola reclute, dopo l’appello finale, ricevetti moltissimi ringraziamenti sia dal corpo dei sotto ufficiali, sia dagli ufficiali.
Durante i primi mesi avevo prestato spesso il mio impegno durante il fine settimana, dedicando il mio tempo alla truppa anche nei giorni festivi, al fine di raccoglierne i frutti Avevo lavorato sul loro potenziale e in base a quello, conseguito grandi progressi.
Mi sentivo al servizio, non della scuola reclute o del mio comandante ma delle persone a me affidate. Questo particolare capovolgeva totalmente il modo di porsi e di operare.
Avevo appena trascorso una settimana di vacanza, era la fase di dislocazione. Era domenica sera.
Mi ero già avviato presso il mio appartamento di Bremgarten bei Bern e di lì a poco, verso le 23:30 avevo appuntamento a Riedbach (BE) con il comandante di compagnia che stava pagando il grado.
Il luogo dell’appuntamento era stato fissato all’entrata di una azienda, posta in una zona industriale.
Era buio pesto, arrivai cinque minuti prima dell’appuntamento.
Vidi arrivare il primo tenente con la sua vettura.
Era cupo e in lacrime.
Mi disse che voleva terminare il pagamento, lasciare tutto e andare a casa. Avemmo una lunga conversazione.
Questo giovane uomo oltre a pagare il grado di capitano per la milizia era anche aspirante ufficiale professionista.
Mi raccontò che l’ufficiale che mi aveva sostituito, una persona di assoluto valore e capacità ma non vedeva di buon occhio il povero malcapitato.
Così seppi che per tutta la mia assenza lo aveva letteralmente messo sotto pressione, fino a farlo esplodere. Ricordo che vederlo in quello stato mi dispiacque molto e cercai in tutti i modi di trovare le parole più giuste per confortarlo e rincuorarlo.
Gli spiegai che sarei rientrato, che sarei stato il suo responsabile e che tutto si sarebbe sistemato. In ogni modo lo convinsi a rimanere e a non interrompere il suo pagamento del grado. La mia azione dette frutti copiosi: quest’uomo oggi è un ufficiale di stato-maggiore generale. Un ottimo ufficiale.
Al mio superiore, dissi chiaramente che non ero d’accordo su quanto accaduto e ritenevo che il nostro compito fosse quello di portare al successo un comandante di compagnia (per la milizia), e non quello di valutare e demotivare un futuro collega. Inoltre l’idoneità per essere istruttore aveva un processo ben definito e il pagamento del grado era solo una piccola parte. Erano due cose ben diverse.
Condivisibile o meno questo era il mio modo di pensare.

“il giardino del vicino è sempre più verde”.
Il soggiorno trascorso negli Stati Uniti d'America fu molto interessante e arricchente.
Ero sempre stato convinto che questa esperienza, facesse parte di una brillante ed entusiasmante programmazione della mia carriera militare. Mi sbagliavo.
Solo nella fase successiva della mia vita professionale, le conoscenze acquisite in USA mi sono state veramente di aiuto nelle mie mansioni di insegnante e in realtà il riscontro a livello professionale si è rivelato minimo.
La possibilità di studiare negli Stati Uniti anzitutto mi costrinse a rinunciare agli impegni presso la milizia.
In quel periodo ero comandante sostituto del battaglione fucilieri montagna 296 (una formazione territoriale). Sarebbe stato il mio secondo corso di ripetizione con questa formazione.
In quel periodo mi sentivo molto coinvolto nella funzione, aiutai fino all'ultimo momento le preparazioni del corso 2003 che si sarebbe svolto a Berna come protezione delle ambasciate.
Questa fu anche la mia ultima esperienza con questa formazione.
Il periodo coincideva con i propositi di sciogliere le formazioni territoriali e purtroppo dopo il loro scioglimento venni letteralmente dimenticato.
Si proprio così, la milizia si dimenticò di me - o almeno è quello che percepivo - e il motivo lo scoprirete nel capitolo riservato a questo passaggio.
Riguardo alla mia esperienza USA, riconosco, per esperienza diretta e indiretta, quanto non sia raro cadere nell’ errore di rimanere dopo una esperienza militare estera, imprigionati nell’aforismo “il giardino del vicino è sempre più verde”.
Spinto da questi convincimenti e dal mio acuto senso critico e razionale, al mio rientro USA, non ebbi alcuna intenzione di applicare in toto ogni regolamento e insegnamento ricevuto dalla scuola americana.
Tale esperienza, mi ha dato sicuramente la possibilità di affinare le mie competenze sulla leadership oltre al fatto di avere una percezione diversa dell’ambiente militare.
Al mio rientro, purtroppo non ebbi alcun riconoscimento per la carriera ma venni impiegato come istruttore d’unità, dove sarei stato chiamato a risolvere diversi problemi fra cui una miriade di casi disciplinari.
NO COMMENT!
Ma andiamo con ordine.
Era dicembre del 2002. Dopo settimane d’intenso studio, sostenni con successo l’esame di inglese presso l’ambasciata americana a Berna.
Quello fu il primo passo verso la mia ormai prossima esperienza negli USA. Superai l’esame ma a quanto padroneggiare la lingua, non se ne parlava proprio.
Il prologo di questa possibilità però fu interessante.
Prima della fine del mio diploma di ufficiale professionista, nel 2001, ero interessato e avevo partecipato alla giornata di selezione per un impiego con la Swisscoy in Kosovo.
Qualche tempo dopo, ricevetti una lettera, non certo tanto condita con rose e fiori, nella quale il colonnello SMG Champendal - a quell’epoca capo dell’arma del sostegno -, senza mezzi termini, mi rimproverava di aver preso contatto con la Swisscoy per un impiego.
Fu chiaro: “bisogna prima lavorare, poi se ne parlerà”.
Alcuni mesi dopo, venni convocato in fretta e furia nell’ufficio del mio comandante di scuola.
Lì trovai il anche il suddetto colonnello.
Mi chiese: “Parla inglese?”.
Risposi: “Si”.
Continuò: "Vuole andare in Ameri(SI!)ca?".
E ancora: “Deve rispondere al più presto”.
Risposi subito: “Si!”.
Dopo il mio immediato assenso mi disse subito: "Una cosa però deve essere chiara: al suo ritorno, lei non vedrà più la scuola reclute! Finito. Sarà impiegato in altre mansioni".
Accettai.
Sarei dovuto partire nel 2002, ma per motivi a me estranei durante un mio soggiorno in Inghilterra per affinare la lingua, mi fu comunicato che il soggiorno di studio sarebbe stato posticipato al 2003.
Mi trovavo a Washington all’Holiday Inn e ci sarei rimasto per due notti. Il 7 febbraio del 2003, giorno successivo al mio arrivo in USA, trascorsi la giornata ufficiale all’ambasciata.
Durante tutta la fase della cosiddetta mobilitazione, fummo seguiti dal divisionario Calcio Gandino. Insieme a me c’erano altri due ufficiali svizzeri che sarebbero però andati in due basi militari diverse.
La situazione a Washington in quel periodo non era delle più sicure. Infatti, le autorità, nell’imminenza del conflitto iracheno, avevano sganciato la fase arancione.
L’arrivo a Washington, infatti, coincideva con i fervidi e già credevo irreversibili preparativi alla guerra.
Anche nell’ambasciata si considerava e progettava una variante di evacuazione e di operare una diminuzione del personale consolare. Con il divisionario scambiammo delle opinioni sulla situazione geopolitica e facendo riferimento a un discorso di un esperto, ci disse che la guerra in Iraq sarebbe stato solo un campo di allenamento per gli USA, in funzione di una probabile guerra contro la Cina o la Corea del Nord.
Se questa visione – scrissi allora – fosse vera, stiamo vivendo un periodo di profonda insicurezza da far rimpiangere la vecchia Guerra Fredda.
Il viaggio da Washington DC a Fort Lee non pose particolari problemi se non il fatto che prima di uscire dall’anello della città, mi trovai a circumnavigare l’autostrada per tante volte. Dovevo abituarmi alla segnaletica!
Fort Lee è una città nella città adiacente a Petersburg, Virginia. Dopo essere entrati nella base, era come essere in una cittadina tranquilla e ordinata. Abituato alle nostre piazze d’armi di taglia minore, ebbi un po’ di problemi a prendere contatto con quella realtà.
La situazione politica internazionale si era fatta ancora più seria. Un video di Osama Bin Laden venne trasmesso da tutte le reti locali.
La tensione internazionale era altissima.
L’aeroporto internazionale di Heathrow, in Inghilterra era sotto la protezione dell’esercito. Per gli USA la minaccia era la solita; rischio di attentati da parte di kamikaze e impiego di armi chimiche.
Si attendevano decisioni da parte delle autorità svizzere per il personale presente negli USA. Possibile rimpatrio? Se ne parlava come possibilità nel caso la situazione fosse precipitata.
Nonostante il pericolo fosse sentito come serio, io non avvertivo alcun senso di minaccia in quel contesto, nonostante la grave situazione.
Durante i primi giorni in USA, ebbi la fortuna di incontrare un ufficiale turco il quale, insieme a un suo collega di corso Venezuelano, mi aiutarono a muovermi nel nuovo contesto americano. Mi donarono persino diversi mobili di cui avevano deciso di disfarsi e questi mi furono molto utili.
I due ufficiali erano al termine di un corso e si stavano preparando al rientro.
In USA faceva freddo, freddissimo. La mia vettura alcune volte veniva ricoperta da un manto di ghiaccio e spesso capitava di dover molto faticare per liberare la vettura. Il primo giorno di scuola, dovetti lavorare per ben quaranta minuti per liberare l’auto dalla morsa del ghiaccio.
Otto millimetri!
Mi dicevano però che era un clima inusuale in quanto da sette anni la regione non veniva perturbata da neve e prima ancora si doveva tornare indietro di quindici anni.
Tutta la Virginia era nella morsa della neve e del ghiaccio.
Molte scuole, aeroporti e uffici funzionavano solo in parte.
Le prime due settimane di pre-corso, a parte il clima, terminarono tranquillamente.
Nel mio ruolo di ufficiale dell’esercito svizzero, mi resi conto della fortuna e dell’importanza di vivere in un paese come il nostro: la qualità di vita, l’ambiente, il cibo e il clima sono caratteristiche meravigliose che altri Paesi non hanno.
Alcune cose mi rimasero impresse, come ad esempio il fatto che la maggior parte degli studenti con cui avevo contatti non erano capaci di svolgere elementari mansioni domestiche. Così non fu raro il dover spiegare al collega turco del mio corso, quali prodotti comprare, come cucinare qualcosa di decente e come utilizzare una lavastoviglie o un forno a microonde.
In quest’ambito mi aiutò sicuramente la mia esperienza di scout.
In quei giorni, terminava anche il corso introduttivo per gli studenti internazionali. Due settimane di nozioni, abbreviazioni e strutture. C’era fra gli internazionali un buon ambiente. La Svizzera era una qualsiasi piazza d’armi.
Ore 05:30. Piazza d’appello.
Presente il comandante di scuola, lo stato maggiore gli istruttori d’unità, e le compagnie della scuola reclute. Tutti in tenuta da ginnastica e in formazione di sezione. Lo stato maggiore aveva anche lo stendardo della scuola. Il comandante salutò gli ospiti per il jogging mattutino. Cinque erano i chilometri da percorrere, in formazione per quattro. Si cantava.
In testa il comandante, seguito dalle sezioni delle reclute. Al termine dello sforzo fisico, veniva premiata la formazione migliore.
Ritornai alla realtà.
Ero a Ft Lee, dove tutta la piazza d’armi partecipava al jogging mattutino. Il mio primo jogging. Proprio come nei film. Nei giorni successivi ogni classe avrebbe fatto sport per conto proprio.
Al termine della corsa, il generale anche lui partecipante alla corsa, rendeva attenti i presenti, che gli USA si trovavano in guerra. Questa guerra continuava, non era solo all’esterno, bensì anche all’interno. Nel territorio statunitense. Quindi occorreva vigilare, stare attenti!
Quella giornata costituì per me ancora oggi un ricordo forte.
Cantare e correre insieme in formazione non era che una iniezione di forza e volontà.
Passati alcuni giorni, il corso divenne una realtà quotidiana, come pure la vita negli USA.
Durante la lezione del 27 marzo, intorno alle dieci di mattina, avevamo osservato un minuto di silenzio in segno di rispetto per alcuni soldati USA giustiziati dalle forze irachene.
Fu un momento di forte emozione e anche se non direttamente coinvolto mi sentivo vicino ai miei camerati americani.
Nella serata del 28 di marzo, partecipai ad una cena speciale (Dinning-out) che si tiene di regola due volte all’anno.
Fu emozionante osservare come tradizione e cultura abbiamo ancora un peso negli USA.
La cena seguiva un protocollo preciso.
Dopo aver preso un aperitivo, ogni partecipante si portava a cospetto dal comandante per il saluto, per poi tornare al proprio posto e attendere l’entrata degli ospiti del comandante. Di seguito entravano le bandiere, accompagnate dalla scorta e seguite dall’inno nazionale.
Il brindisi era ritenuto un vero e proprio rituale. Non si trattava di un brindisi “alla salute” come usa di solito da noi ma veniva riferito sempre a qualcosa di concreto ovvero a una situazione, ai caduti, alle famiglie. Le parole venivano scandite.
Poi il brindisi con in alto i calici.
L’ufficiale americano ha una cosa che noi in Svizzera non abbiamo; la divisa di gala. Bellissima.
La nostra tenuta di libera uscita è si bella ma è anche una tenuta di lavoro e si differenzia poco da quella della truppa. Peccato. Lo devo proprio dire. L’esercito svizzero per queste situazioni difetta di cultura. Diciamo le cose come stanno!
Eravamo già al 12 di aprile e la scuola procedeva velocemente. Il carico di lavoro era abbastanza pieno; test settimanali individuali, lavori di gruppo e lavori personali. I test non erano impossibili ma richiedevano un notevole impegno nello studio.
Il mio livello d’inglese andava migliorando ma pur sempre rimaneva a un livello non eccellente.
In quei giorni, la città irachena di Bagdad passava in mano alla coalizione e quindi ora la parte più difficile era alle porte.
La fine del mese di aprile coincise anche con la fine della prima parte del corso.
In questi giorni arrivò dalla Svizzera anche la mia attuale moglie, Muriel. I giorni con lei furono intensi.
Prima dell’inizio della seconda parte del corso, tenuto non più in Virginia ma nel Maryland nella località di Aberdeen, avemmo la possibilità di visitare con la scuola, la capitale Washington e i corridoi del Pentagono, dove ebbi la possibilità di pulire le mie scarpe sullo zerbino dell’ufficio di Donald Henry Rumsfeld, allora segretario della difesa degli Stati Uniti d'America.
Dopo due settimane mi ritenevo molto soddisfatto per il buon livello di apprendimento.
Il capitano Garlington era un istruttore con molta esperienza alle spalle e soprattutto capace di motivare. Seguire le sue lezioni era divertente e al tempo stesso performante.
Tema principale della seconda parte del corso fu la “manutenzione”.
A Maryland, circa alla metà del mese di maggio, avevamo avuto la possibilità di partecipare ad una gita all’accademia navale e al palazzo del governo di Annapolis, capitale dello Stato.
Un altro pianeta!
La Navy è parte integrante del territorio USA. La Navy è presente, si vede. Non si nasconde dietro le cinte delle caserme. Inoltre tutte le varie costole dell’esercito americano sono presenti attraverso i media.
In USA i cadetti che intendono accedere all’accademia devono essere supportati da referenze da parte di un senatore o di un rappresentante del governo e successivamente vengono confermati da un’apposita commissione.
Il cadetto, una volta ammesso all’accademia, riceve una formazione civile e militare interamente coperto dallo Stato. Lo sport è un elemento importante e visibile in ogni angolo dell’Accademia.
La rivalità fra la Navy e la Army è grande.
Annapolis fu per nove mesi la capitale federale nella fase terminale della guerra di secessione a cui Washington dette fine con la firma di un atto importante per la giovane storia americana.
Quinta e ultima settimana della seconda fase.
La fase, si svolgeva precisamente nell’avamposto di Aberdeen nel Maryland (Aberdeen Proving Ground).
Come da programma, visitammo la catena di montaggio della famosa fabbrica di moto Harley-Davidson nello York in Pennsylvania. La visita ci permise di scoprire i vari processi del lavoro della catena di montaggio. Riuscii a farmi scattare una foto ricordo in sella a uno dei bolidi esposti.
Lo stesso giorno, a York, visitammo la United Defense, fornitrice dei sistemi Paladin, Abrams, Bradley e di diversi nuovi prototipi. Visita molto interessante. Oltre alla costruzione, buona parte del lavoro, consiste nella riconversione, e miglioramento dei vari sistemi / veicoli militari.
Visitai con altri studenti internazionali, la località di Norfolk.
Norfolk è una città autonoma degli Stati Uniti d'America, nel Commonwealth della Virginia. Inoltre ospita la più grande importante base navale negli Stati Uniti e la più grande base aeronavale del mondo.
Al museo navale, la USS Wisconsin faceva bella mostra di sé.
La nave appartiene alla classe Iowa, nota anche con il nome “Wisky”. Fu costruita nel cantiere navale di Filadelfia e varata il 7 dicembre del 1943. Questa nave nel 2003 era ancora operativa ma in riserva e aperta ai visitatori.
Interessante, fu anche il giro in battello, dove potemmo vedere da molto vicino diverse imbarcazioni militari, la famosa USS Cole, le quattro portaerei USS Enterprise, USS Truman, USS Rooswelt e la USS Ronald Reagan), come pure due sottomarini della classe Los Angeles. Impressionante.
La terza fase portava a compimento il corso e fu svolta sempre presso la base di Ft Lee. Questa fase consisteva nell’ esercitare la tecnica di lavoro di stato maggiore a livello di brigata e battaglione con nuova composizione della classe.
L’istruttore molto capace, purtroppo, non fu molto presente, poiché si trovava nella fase finale del suo master. Per questo le sue lezioni furono sempre molto veloci. Ciò che notai a livello di tecnica di lavoro dello stato maggiore, fu l’impressionante numero di produzione di lucidi in power-point.
Terminai con successo il mio ultimo test. Ero felice. Molto felice. Durante quei mesi, avevo costantemente migliorato la mia media. La mia non proprio padronanza della lingua di inglese, mi aveva tenuto confinato per tanto tempo dietro ai libri e ai documenti.
La fase uno, la conclusi con una percentuale del 76%, la seconda con l’81%, mentre la terza con un ottimo 91%. La media finale dovrebbe essere fra l’80% e il 90%, cioè “buono”.
Mi capitò di parlare con un compagno ufficiale americano che per la seconda volta non era riuscito a superare il test per la condizione fisica. Quasi piangeva. Mi raccontò parte della sua vita: era divorziato con una figlia che viveva in Texas. Era un buon ufficiale ma secondo le regole doveva essere congedato dall’esercito.
Il corso era ormai giunto al termine quando partecipai all’ultimo viaggio organizzato. Il viaggio coincideva con il lungo settimana per onorare il giorno dell’indipendenza americana (4 di luglio). Il programma prevedeva diverse visite a luoghi storici della recente storia americana, in particolare alla guerra civile (Gettisburg, per esempio).
Meno interessante, fu la visita alla comunità Amish, popolo emigrato dall’Europa circa due secoli orsono verso gli USA. Il principale motivo dell’immigrazione verso le nuove terre fu di ordine religioso.
Fine del corso!
La terza fase fu quella che mi permise meglio integrarmi nel gruppo. Grazie allo sforzo della prima e seconda fase infatti, non ebbi alcun problema a seguire e a meglio interagire nel periodo conclusivo.
Prima di prepararmi per il rientro definitivo in Svizzera, ebbi anche la possibilità di trascorre una settimana OJT (on the job training) a Fort Pickett.
Fort Pickett è un'installazione della Guardia Nazionale dell'Esercito della Virginia, situata vicino alla città di Blackstone, Virginia. Sede del Centro di addestramento delle manovre della Guardia Nazionale dell'Esercito, Fort Pickett prende il nome dall'ufficiale dell'Esercito degli Stati Uniti e dal generale confederato George Pickett.
Normalmente, il periodo sarebbe stato di diverse settimane. Purtroppo, la guerra in Iraq, impediva di rimanere più a lungo, in quanto i fermenti della preparazione bellica limitavano molto la disponibilità dell’esercito USA da dedicare ad altre attività.
Al termine di questo mini OJT, volai in Messico nella località di Cancún, dove trascorsi una settimana di vacanza con il fratello di Muriel.
Durante le ultime settimane, mi raggiunse per la seconda volta Muriel. Insieme a una coppia americana (Joy Barnard) visitammo Virginia Beach e trascorremmo insieme una giornata di follia al Kings Dominion (parco dei divertimenti). Prima del rientro di Muriel in Svizzera, decidemmo di visitare Washington, i suoi musei e i suoi luoghi tipici.
Lasciai definitivamente Ft Lee per Ft Pickett. Come alloggio, mi assegnarono un un piccolo cottage, isolato e perso in una bellissima cornice di verde. Un luogo fantastico.
Il mio primo giorno OJT fu molto intenso e pieno di soddisfazioni. Ebbi la possibilità di assistere a sequenze d’istruzione molto interessanti e il personale che mi avrebbe seguito si mostrò da subito molto cordiale e disponibile.
Già la prima mattina visitai una batteria d’artiglieria occupata alla transizione sul sistema Paladin. Durante la pausa di mezzogiorno, assistetti alla preparazione di un esercizio dei SEALS.
Il tema era: “Sapersi disimpegnare dal nemico dopo esserne venuti in contatto”.
Subito dopo, volai per quaranta minuti con un Black Hawk nel perimetro del forte per valutare i danni provocati dalle recenti intemperie. Sull’elicottero prese posto, oltre me, un membro del congresso US, un generale e un colonnello.
Dimenticavo, sempre durante la mattina, ebbi modo di assistere ad un training di volo di un C-17. Si trattava essenzialmente di diversi touch and down, ovvero: “atterra e riparti”.
Non ricordo il giorno preciso ma sempre durante la settimana OJT, mi recai in una officina, dove venivano riparati e controllati i carri armati, sempre nella base di Ft Pickett.
Un sotto-ufficiale si prodigava nel spiegarmi tutti i possibili dati tecnici e ad un certo punto mi chiese se volevo andare a fare un giro di prova sulla pista.
Chiaramente dissi di si! Giunti alla pista, con mia sorpresa mi chiese se volevo guidarlo io. Il carro armato era del tipo Abrams. Chiaramente detti il mio assenso. Mi aspettavo già una lunga paranoica spiegazione di tutto il sistema ma dopo avermi detto questa è la cloche, il freno e il gas, mi disse: “ora sei pronto”.
Così dopo meno di un minuto di istruzione mi trovavo solo sul carro armato e pronto a girare per la pista. Un mostro metallico di oltre 45 tonnellate. Dopo due giri iniziavo già a prendere confidenza. Una bellissima sensazione.
La settimana si rivelò emozionante in quanto vidi con i miei occhi e alcune volte in modo pratico, diverse attività militari.
Giunsi la mattina del 9 agosto all’aeroporto di Washington per prendere il volo per Cancún. OJT concluso. Peccato.
Dopo una settimana di puro relax, rientrai nella capitale USA per la smobilitazione amministrativa presso l’ambasciata.
Il volo per la Svizzera fu fissato per il martedì 19 agosto 2003. Eccomi di ritorno. La mia esperienza in USA si era appena conclusa.

“cercai di identificarmi il più possibile
con la nuova sfida”.
Era il 16 dicembre 2003. Dopo il mio rientro in Italia dagli USA, avvertivo la triste sensazione di sentirmi usato come una pallina da ping pong.
Venni impiegato presso la mia vecchia scuola reclute come “ufficiale a disposizione” e membro per il progetto della scuola quadri che avrebbe preso forma a partire dalla nuova riforma dell’esercito prevista per il 2005.
Il rievocare le parole ferme, decise e fredde di uno dei miei superiori quando mi disse che dopo l’esperienza in USA avrei dovuto dimenticare la possibilità di ritornare al fronte, non mi faceva sentire a mio agio.
Ricordo che durante il periodo di dislocazione della scuola reclute,il mio compito consisteva nell’assistere una compagnia nella conduzione e preparazione di casi disciplinari. Erano una quindicina.
Ero lontano dalla tattica, dai lavori di stato maggiore, da tutte quelle cose che avevo appreso negli USA e che volevo assolutamente fare confluire nella mia quotidianità.
Almeno, in questa fase di dislocazione, ebbi la possibilità di “giocare” al comandante di battaglione; mi ricordo ancora oggi il tema portante del mio discorso della “presa della bandiera”. Parlava di un lago, di pescatori e di pesci. Un concetto quello agli albori dell’era liberale che in sintesi formulava l’importanza delle regole per poter dare a tutti la libertà di pescare, senza la paura di non fare estinguere i pesci e scatenare guerre fra i diversi pescatori.
Mi ero preparato veramente fino all’ultimo dettaglio, il posto, la musica, il testo, ripetuto più volte.
In quel momento mi sentivo fiero di rappresentare la mia nazione, di dare il mio contributo. Terminata questa sequenza vibrante, mi ritrovai ancora una volta a disbrigare casi disciplinari.
A cavallo fra l’Esercito 95 che stava ormai per terminare e l’Esercito XXI, iniziò per me un periodo molto difficile. Al termine della scuola reclute estiva e in occasione del rapporto di scuola a cui avevo preso parte, mi comunicarono che da partire dall’anno successivo, sarei stato impiegato presso la nuova scuola recluta pianificata presso la caserma di La Poya nel cantone di Friborgo.
Accettai la decisione. Così da subito, cercai di identificarmi il più possibile con la nuova sfida.
Dopotutto ero un soldato. Iniziarono per contro anche le mie ferie estive. Dopo circa una settimana dall’inizio, ricevetti inaspettatamente una telefonata dal responsabile della scuola per i quadri, il quale mi comunicava che il mio impiego era cambiato e quindi avrei lavorato per formare i nuovi futuri sotto-ufficiali.
Così iniziai di nuovo il processo di identificazione.
Immaginavo già di poter dare effettivamente un valido contributo. Mi ero identificato.
Trascorsi circa trenta a quaranta giorni, iniziai a sentire strani rumori di corridoio. Il responsabile per la gestione del personale non era d’accordo con il futuro comandante della scuola reclute. Scambio di lettere, ordini, incontri; la tensione era abbastanza alta e nervosa.
Io rimasi in silenzio ma il 15 dicembre del 2003, poco prima della pausa natalizia, di nuovo un ennesimo cambiamento.
Io sarei stato impiegato alla scuola reclute.
Ero perplesso, non capivo il motivo di questo gioco. Avevo già alle spalle diversi anni di impiego presso la scuola reclute, dove avevo ottenuto ottimi risultati.
Il mio impiego nella scuola quadri, mi avrebbe permesso di mettere a frutto sia l’esperienza maturata in Svizzera, sia l’esperienza forgiata negli USA. Volevo delle risposte.
Identificarmi ancora?
Avevo necessità di conoscere i motivi i motivi di questo assurdo e non edificante ping-pong.
Lunedì 15 dicembre, il colonnello SMG Haldimann informava diversi collaboratori, quindi anche me, sulle decisioni prese e queste confermavano quanto già detto.
Due colleghi sotto ufficiali di professione non erano d’accordo, mentre io – ancora una volta accettavo la decisione, pur riconoscendo la brutta situazione venutasi a creare.
Dato però che non ero contento ne soddisfatto, chiesi di avere un colloquio ufficiale sulle vere motivazioni di questi continui cambiamenti. Come risposta, mi dissero che a gennaio del nuovo anno, avrei avuto un incontro con il responsabile del personale e con il comandante di scuola.
Verso la fine dell’anno però decisi di scrivere a quest’ultimo, confermando di accettare la nuova destinazione e di accettarne le motivazioni anche se non le ritenevo pertinenti e infine dichiaravo di rinunciare anche al colloquio programmato a inizio anno successivo.
Solo diversi mesi dopo compresi le reali motivazioni.
Con la nuova riforma, dovevo gestire oltre 250 reclute, un team di 8-10 militari a contratto temporaneo. Oltre alla funzione di istruttore d’unità svolgevo anche a tempo pieno le mansioni di comandante di compagnia. Era un impiego 7/7 e 24/24 - sempre al lavoro giorno e notte - incluso il sabato mattina e la domenica sera. Un periodo indubbiamente molto intenso, anzi intensissimo.
Ero risuscito a identificarmi con i miei collaboratori, con le mie reclute mentre i rapporti con il comando di scuola si stava deteriorando. Probabilmente ero la persona idonea per gestire l’inizio di questa nuova organizzazione.
Il comando di scuola era nuovo come pure lo stazionamento della caserma; c’era una riforma dell’Esercito da applicare con personale nuovo e nuova metodologia.
A livello di team istruttori, era venuto a mancare la figura dell’aiutante che si trovava ora a livello dello stato maggiore della scuola e alcuni dei miei superiori e camerati erano frustrati per non aver ottenuto la promozione o un comando.
Il comando di scuola, aveva tre subordinati diretti, la SR (istruzione di base e servizio tecnico), la SR (istruzione in formazione) e la scuola dei quadri. Io ero subordinato alla SR (istruzione di base e servizio tecnico). Eravamo insomma in una nuova dimensione anche se all’inizio eravamo ancora ancorati alle vecchie abitudini. L’unica cosa che non era cambiata era la quantità dei lavori amministrativi (cover myass) che aumentava sempre di più.
Un episodio emblematico si verificò quando il comando di scuola attraverso il responsabile, ordinò alle compagnie (eravamo due compagnie) di utilizzare la piattaforma amministrativa Miloffice. Si trattava di redigere tutti i documenti tramite questa piattaforma; con un po’ di riluttanza ma sempre con grande serietà feci di tutto per implementare l’ordine.
Un giorno durante il rapporto settimanale, il mio superiore comunicava che il desiderio del comandante era quello di redigere gli ordini del giorno, massimo di una pagina. Se durante questi istanti avessi avuto al polso l’apparecchio per controllare la pressione, sarebbe esploso.
Io avevo sempre accettato gli ordini, ed era vero che a volte bastava guardarmi in faccia per capire se ne fossi contento.
Quello che non ho mai tollerato è il predicare acqua e cercare il vino.
L’ordine di utilizzo della piattaforma amministrativa, aveva però anche delle conseguenze. La mia compagnia, contava dalle 4 alle 5 sezioni e il timing era molto importante e quindi come conseguenza il mio ordine del giorno era composto da tre pagine.
Ritornando al desidero del comandante, dopo essermi rianimato, mi precipitai nell’ufficio del comandante.
Rievocando le immagini di quel confronto, riconosco oggi di non aver agito con leggera diplomazia. Gli spiegai infatti che l’ordine del giorno su tre pagine era una conseguenza dell’utilizzo del programma che era stato ordinato da lui stesso e che quindi doveva assumersi anche le conseguenze. Continuai senza abbassare minimamente il tono della voce che io non avrei cambiato un bel niente! Spiegai che gli ordini del giorno dovevano rimanere tali e che un cambiamento, per favorire il suo desiderio, avrebbe causato ancora una mole di lavoro supplementare mentre l’idea della piattaforma era quella di alleggerire alcuni processi amministrativi.
Dalla sua reazione, capii che non conosceva assolutamente il sistema. A questo punto pensai che il problema non era mio e mi congedai da lui.
Lo ammetto, verso la mia compagnia, i miei collaboratori ero disponibile e cooperativo, cercavo di motivare e di fare tutto il possibile per un buon funzionamento mentre con il livello superiore sembrava cercassi solo il conflitto.
Indubbiamente quello fu un periodo difficile. Il doppio incarico di istruttore d’unità e di comandante di compagnia era comunque intenso e molto interessante.
L’esperienza lavorativa legata alla mia funzione di milizia, mi aiutò enormemente. Condurre un effettivo così grande con il personale insegnante a contratto, dove l’esperienza e la disponibilità (ore di lavoro) sono da tenere costantemente sott’occhio, richiede notevoli sforzi ma soprattutto anche molta presenza.
Quello che più in quel periodo mi rattristava era lo sviluppo della mia professione, in particolare sulla conduzione del personale e pianificazione generale.
Dal giorno del mio rientro dagli USA, non ricevetti nessuna indicazione sul mio futuro professionale e nonostante ciò, nella funzione che ricoprivo, cercai di essere propositivo e innovativo; purtroppo però la maggior parte delle proposte si scontravano con la cocciutaggine del “è solo un dettaglio, non è importante”.
L’elemento peggiore che riscontravo nel quotidiano stava nella forma della comunicazione, che si verificava ogni qualvolta mi veniva dette frasi come questa: “ma non hai nient’altro a cui pensare?”, accompagnate spesso dalla poca coerenza di condotta di chi dava ordini da eseguire.
Sovente accadeva che le decisioni di un livello di comando, venissero sconfessate da un altro livello di comando, infatti non era del tutto raro che proposte o l’annuncio di problemi venissero bocciate oppure semplicemente ignorate.
Ho sempre ritenuto che tutto ciò fosse causato dalla condizione del nuovo: vivevamo infatti l’instabilità di una nuova situazione.
I rapporti settimanali con il mio superiore, potevano essere paragonati ad un continuo guerreggiare. La critica costruttiva non trovava il suo posto, lasciando ampi spazi a rabbia e accanimento.
Alcuni collaboratori dimostravano il loro vero volto: figure insicure ma con una grande voce e insieme a queste emergeva anche una consistente percentuale di persone che dopo aver sollevato un problema ne portava sapientemente la soluzione al solo fine di emergere. Come si suol dire: «La colpa è sempre degli altri!».
Anche io forse non posso lesinarmi da questa critica.
Un giorno mi beccai una di quelle ramanzine prussiane, con tanto di invito a cambiare lavoro se non volevo. Per mia fortuna ebbi la forza e il buonsenso di stare zitto e ascoltare.
Questi i fatti.
Durante un appello mattutino davanti alla compagnia, ci trovavamo nella fase tecnica e la compagnia era dislocata a Langnau in Emmental (BE), avevo – forse dando aria alla mia frustrazione – erroneamente detto ad alta voce che trovavo strano che il capo del servizio tecnico non fosse presente per l’inizio della fase. Anche se i social media non erano ancora utilizzati come oggi, non passarono alcuni nanosecondi che i collaboratori civili ne fecero grande eco al responsabile. Ne nacque alcuni giorni più tardi una furiosa lite, udibile anche centinaia di metri di distanza.
Fu poi il turno della ramanzina prussiana.
Dopo aver ascoltato, fu il mio turno, e cercai di spiegare al responsabile che il suo collaboratore, nonché amico, parlava e agiva non sempre conformemente a quanto ci si aspetta da un collaboratore leale. A questo punto la ramazzata continuò in altre sedi senza la mia presenza.
A prescindere da questi episodi poco edificanti, mi sentivo pronto a continuare nel mio ruolo anzi pensai che da un certo punto di vista, la ramanzina mi aveva fatto bene, mi aveva caricato.
Continuavo a sentirmi però prevalentemente un comandante di compagnia e meno un istruttore di unità e ciò era fantastico! Sicuramente troppe ore di presenza.
Speravo prima o poi di cambiare funzione perché ritenevo che la condizione di stress in cui mi trovavo avrebbe alla fine danneggiato il mio equilibrio psicofisico e anche la mia vita privata.
Correva il 2004. Era il 3 ottobre. Mi ero lasciato alle spalle un periodo difficile ma anche pieno di soddisfazioni e di buoni risultati.
Se la prima scuola reclute (Start 1) è stata caratterizzata prevalentemente da un’atmosfera di confronto fra me e il comando scuola, il secondo Start è stato un vivere decisamente più pacifico, dove le mie risorse e attenzioni erano tutte per la mia compagnia, cercando di neutralizzare laddove possibile ogni attrito con la scuola.
Mi concentrai ancor più sulle persone a me affidate e grazie al mio team, raggiungere un ottimo livello di istruzione e di disciplina.
A livello personale un punto sicuramente a mio svantaggio erano le ore di presenza, mediamente dovevo presenziare dalle ore 06:30 del mattino alle 22:30 della sera e ciò accadde per 8 mesi.
Alla lunga, anche il più motivato avrebbe avuto delle ripercussioni per la stanchezza fisica e mentale!
Dopo qualche mese infatti il mio medico di fiducia, mi chiese se avessi avuto dei problemi, perché aveva percepito chiari segnali di principio di affaticamento.
È giusto e doveroso ora, ricordare anche momenti di straordinarie emozioni che caratterizzarono questi ultimi 8 mesi.
Rimarranno fisse nella mia memoria il team di collaboratori che è cresciuto insieme a me, le notti trascorse fuori, le marce, i diversi esercizi, gli spostamenti tattici nella regione dell’Emmental percorrendo chilometri dentro un fiume, lo sport che facevo con i più deboli per poterli motivare nel movimento, l’inno nazionale al mattino suonato da una recluta.
Ricordo perfettamente quando feci impazzire il QM locale del paese di Langanu in Emmental (BE) allorquando si trattò di preparare l’arrivo della compagnia.
Fra tutti i desideri che mi sovvennero, c’era anche un’asta per la bandiera. Anni dopo, poco prima del suo pensionamento, il QM di Langnau, mi ricordava ancora la fatica per aver quell’asta, come pure tutti gli accorgimenti che avevo voluto per meglio acquartierare la compagnia.
Ero convinto, come del resto lo sono ancora oggi, che un'istruzione militare dovesse essere non solo rispettosa e adattata al tempo ma allo stesso tempo anche dura e impegnativa.
Agli inizi della nuova riforma, i giorni di servizio vennero ridotti, i programmi erano ancora strapieni di cose da fare e obiettivi da raggiungere. Non c'era più spazio per costruire una leadership perché bastava compilare la buona riuscita del controllo d'istruzione.
Lo sforzo psicofisico, da sempre ha rappresentato una componente molto importante per me, pur essendo un soldato della logistica. L'allenamento allo stress, il sapersi confrontare con la stanchezza, fanno parte di un curriculum militare.
Ma le condizioni erano cambiate.
Ricordo che quando programmavo una marcia di 5 km, avevo una lunga lista di pretendenti a voler essere dispensati e così escogitai uno stratagemma intellettuale. Una o due volte alla settimana ordinai alle sezioni di spostarsi a piedi verso la piazza di lavoro o di ritorno. Nota bene spostamento e non marcia. I risultati furono incredibili. Le dispense diminuirono vertiginosamente. Addirittura, accadde persino che le sezioni volessero ritornare senza un mezzo di trasporto.
Dal 20 settembre mi trovai alla scuola ufficiali di Berna come capo-classe. Il comandante era una vecchia conoscenza, il colonnello di SMG Daniel Baumgartner, già mio comandante durante le prime esperienze alla scuola reclute del sostegno.
Il mio trasferimento avvenne all’improvviso.
Le motivazioni non potevano che essere due. La prima che il comando a Friborgo, aveva difficoltà nel gestirmi e quindi etichettata come “persona non gradita”, oppure perché avevano bisogno di una persona con esperienza per impiegare come capo-classe per i futuri ufficiali della logistica.
Probabilmente erano vere entrambe le ipotesi legate anche dal fatto che un camerata aveva rassegnato le dimissioni.
Nell’ufficio del comandante denominato “Funker-Haus”, Daniel mi accolse. Dall’alto dei suoi due metri, mi disse chiaramente che ora dovevo prima di tutto stare zitto e lavorare. Solo dopo aver dimostrato di fare bene avrei potuto dire qualche cosa.
Questa introduzione era sicuramente un eco della situazione venutasi a creare a Friborgo.
Ben presto mi accorsi che a Berna presso la scuola ufficiali c’era un diverso e buon livello di organizzazione. I piani orari, i contenuti d’istruzione erano pronti. Gli orari di lavoro erano regolari anche se intensi e la pianificazione permetteva di organizzarsi meglio e soprattutto alcune sequenze d’istruzione, erano condotte dal comando scuola, esonerando i capi-classe. Un buon auspicio dunque.
Stavo terminando la mia seconda scuola ufficiali in qualità di capo-classe e fino a quel momento potevo affermare che si trattò di un’esperienza ricca di soddisfazioni.
Mi sento anche di dire che il mio impegno dette i suoi frutti. Buona classe in fatto di risultati e coesione.
Regolarmente superiori diversi, hanno espresso il motivo della loro soddisfazione osservando che sempre avevo delle buone classi. All’inizio, titubante, pensavo che era solo una fortuita coincidenza, con il trascorrere del tempo però ho imparato che – si ci vuole fortuna – ma la fortuna bisogna anche curarla.
Ho sempre creduto di non essere il migliore in assoluto ma sicuramente lo sono in senso relativo. Il mio carattere latino, la mia empatia, l’essere naturale e la voglia di imparare insieme, mi hanno sempre aiutato ad ottenere, con le persone a me affidate, ottimi risultati.
Mi piace paragonare questa situazione con lo sport. Ho sempre avuto nelle mie classi giocatori mediocri, che messi insieme hanno fatto la differenza.
Nella funzione di capo-classe, mi trovai molto bene e già dopo la mia prima classe, potei continuare a migliorare. Si trattava di capitalizzare il buon inizio e continuare sulla strada del miglioramento.
Le relazioni con i miei colleghi erano sereni, si era creato un buon ambiente e ci si aiutava vicendevolmente. Il capo pretendeva molto ed era sempre presente in prima persona nelle istruzioni del corpo insegnante. Pretendeva tanto ma lasciava molto spazio per la messa in pratica delle direttive e quindi questo modello faceva proprio al caso mio.
Non mi sentivo al guinzaglio. Notavo in lui solo una certa preferenza per gli ufficiali di stato maggiore generale.
A bassa voce posso dire che si tratta di una tendenza che mi accompagnerà tutta la vita!
Essere SMG apre diverse prospettive di lavoro molto interessanti. A proposito di ciò, verso la fine del 2004, ricevetti una telefonata dalla mia formazione d’applicazione, nella quale mi comunicavano che ero di nuovo in lista quale candidato SMG.
Roba da non crederci!
Pensavo che fosse uno scherzo, ma non lo era. Così a gennaio mi trovai a sostenere le prove MEP (esami di idoneità militari).
Successivamente mi fu chiesto di ricostruire il mio dossier personale, in quanto – non si sa perché o percome – tutte le mie informazioni erano state perse.
Gli auspici erano buoni, avevo superato il primo ostacolo in modo eccellente ed era dunque solo il capo dell’Esercito che si doveva esprimere, decidendo così il mio futuro.
Era l’agosto 2005, sette anni erano trascorsi. Prima non volevo, poi volevo ma non mi volevano, alla fine non volevo, ma mi volevano.
Bel gioco di parole per esprimere la mia gioia, quando nella mia buca lettere a Ligornetto ricevetti la conferma che avrei potuto iniziare la mia formazione per diventare un ufficiale di Stato Maggiore Generale.
Era un giorno d’estate, caldo era bel tempo e il cielo era dipinto di un bell’azzurro. Lessi la lettera e saltando diverse volte in alto, sempre più in alto, mi sembrava di toccare il cielo con un dito.
Da quel momento pensai subito che avrei organizzato e investito molto tempo per potermi preparare e se tutto fosse andato secondo i piani, avrei terminato la mia istruzione agli inizi di marzo 2006.
Il tempo scorreva veloce, molto veloce.
Durante quel periodo, mi alzavo alle cinque di mattina per imparare a memoria una trentina di definizioni, studiavo la geografia e quant’altro ancora mi serviva per superare il test d’entrata.
Ritenni alla fine di essere ben preparato, seguendo un piano di avvicinamento all’esame. Grins! Il mio capo però non mi ha certo facilitato dandomi una classe da condurre.
Dalle 06:30 alle 22:30 ero assorbito dalla mia classe. La classe era la mia prima missione, lo studio per gli esami erano inconsciamente subordinati ai bisogni della classe.
Durante la settimana di sopravvivenza, ci trovavamo nella Vallée de Joux, nel Canton Jura.
Avevo la responsabilità della sicurezza dei partecipanti. Avevo dormito poco per le precedenti fasi e dalla mezzanotte, fino alle 06:00 circa ero nel bosco a sorvegliare il bivacco delle classi. Con grande sforzo ripetevo le definizioni e qualche altra materia d’esame.
Io ero li. Altri ebbero la fortuna di essere “liberati”, potendosi concentrare meglio sullo studio.
Il mio rammarico, semmai ce ne fosse uno è quello di non aver capito che la preparazione era – purtroppo – il fattore chiave.
Di lì a poche settimane, il mio mondo sarebbe crollato. La fiducia in me stesso fu messa a dura prova.
Ho versato anche lacrime; lacrime di rabbia, di paura e di smarrimento. Nessuno a parte Muriel ha percepito che quanto andrete a leggere nel prossimo capitolo era per me un fattore di vitale importanza.
Avevo capito che senza il conseguimento SMG, le mie chance per una carriera a me confacente si andavano lentamente disintegrando.
Lentamente, mi scrollai di dosso il mio fardello psicologico che non potrò mai dimenticare.
Il tempo non si ferma, così come la ricerca di nuovi obiettivi, ovvero una ricetta per guardare avanti con più serenità.
Era il gennaio del 2007 e da lì a poco era prevista la mia assegnazione alla piazza d’armi di Friborgo presso la scuola rifornimento/restituzione 45 con una funzione E3 ma poi fu deciso che avrei assunto la funzione di comandante sostituto presso la scuola ufficiali di Berna.
Non mi dispiacque comunque.
Quello che doveva essere un anno relativamente tranquillo, ovvero ricoprire la funzione di capo-classe fino alla fine dell’anno, si stava trasformando in un anno intensissimo.
Poco per volta ripresi la funzione di sostituto, ciò significava avere la mia ultima classe.
Al sostituto ten col SMG Daniel Kaufmann furono assegnati altri incarichi. Seppi che quest’ultimo doveva effettuare un soggiorno di studi in Austria ma che per problemi personali vi rinunciò e si poneva dunque il problema della sua destinazione considerato che nella formazione di applicazione della logistica tutti i posti erano occupati.
Pensai immediatamente: “Mi sacrificheranno?” anche se non ne avevo il sentore. Mai dire mai.
In aprile avevo effettuato l’assessment per la nuova funzione ed ero in attesa dei risultati. Per quanto riguardava la milizia, sarei stato nuovamente incorporato in una formazione di milizia.
È incredibile. Per quanto possa fare male, non avevo superato l’assessment. Era un giovedì del 24 giugno 2007, durante l’esercizio di resistenza, ovvero la 100 km.
Ero a casa, quando il comandante di scuola Baumgartner mi chiamò.
Dovetti così di fretta e furia portarmi al punto 1 ovvero ad uno dei primi punti di controllo del percorso della marcia, per incontrare il comandante della formazione d’applicazione.
Mi venne detto: “Eh si! sei un buon istruttore, sai motivare eccetera (le parole erano ormai molto soffuse e il contenuto non più chiaro). Ma non hai passato l’assessment”.
Caddi dal cielo, letteralmente.
Tornando a casa dopo questa comunicazione lampo, fu un vero miracolo non aver causato un incidente.
Ero nervoso, piangevo e la velocità era al limite.
L’apertura del resoconto dell’assessment era previsto prima per il 26 di giugno ma poi venne anticipato al 18 dello stesso mese.
Pensavo che era illogico attendere per circa due mesi e mezzo per avere un responso. Ero convinto di possedere delle qualità di condotta e possedevo delle indubbie competenze sociali ed empatiche. In quel momento però mi sentii vuoto.
Quel risultato chiaramente ebbe delle ripercussioni anche su quella che doveva essere la mia futura funzione che chiaramente non avrei potuto assumere.
Decisi di attendere con una relativa calma il 18. Intanto mi preparai bene deciso che se fosse servito avrei tirato fuori gli artigli.
L’apertura dell’assessment non fu stato niente di sensazionale. Positivo solo il fatto di poter riflettere ancora sui miei punti forti e quelli considerati deboli.
Negativa fu la conduzione del colloquio. Esempi non concreti, esposizione confusa sullo svolgimento eccetera. Uno dei relatori, iniziò chiedendomi come mai non ero stato maggiore generale. Lo ammetto, questa domanda mi destabilizzò totalmente perché vedevo in questa domanda un primo pregiudizio nei miei confronti.
Così feci ricorso.
Molto meglio e più istruttivo fu invece il colloquio seguente con il comandante della formazione d’applicazione.
Conoscendomi bene, mi disse che mi ero sicuramente ben preparato, anzi mi ero preparato fin troppo per l’assessment e probabilmente questo mi aveva anche impedito di essere la persona che sono veramente.
Sentivo la sua fiducia. Ora si trattava nuovamente di aspettare. Ero fiducioso.
Trascorse più di un anno dall’ultima annotazione.
Fu un periodo molto intenso, un periodo dove ricevetti molte soddisfazioni ma anche silenziose sofferenze.
Prima dell’inizio del mio corso di ripetizione come sostituto del battaglione mobile logistico 22, Matteo il mio comandante di milizia, si ruppe il ginocchio a soli pochi giorni dell’inizio del corso.
Quando me lo comunicò ero al lavoro e pensavo all’inizio fosse uno scherzo. Ma non lo era. La sua sfortuna si rivelò la mia fortuna. Ebbi infatti la possibilità di mostrare le mie capacità in quanto per le quattro settimane successive avrei interrotto il mio lavoro per assumere la funzione di comandante di battaglione.
Dal profilo della condotta, dall’esperienza umana e anche dai risultati ottenuti fu sicuramente un’esperienza più che positiva.
Questo evento casuale - ricordo che non volevo più effettuare un solo giorni di milizia - mi aiutò a riprendere o riguadagnare fiducia in me stesso e dimostrare anche che ero pronto per una funzione di maggiore responsabilità, non solo presso la milizia ma in generale in ambito lavorativo.
Così grazie anche a questa possibilità fortuita e soprattutto alle prestazioni professionali che mi furono sempre riconosciute, ricevetti una rinnovata fiducia e la promessa di essere appoggiato davanti la commissione della carriera.
La svolta avvenne per ironia della sorte lo stesso anno, quando un responsabile della scuola di Friborgo si licenziò lasciando libera una funzione E3.
Durante un giorno d’ispezione mi trovavo su una piazza di tiro con gli aspiranti, ero intento a guardare il divisionario J.J. Chevalley intento a valutare una prestazione di una classe, quando il colonnello SMG Baumgartner mi si avvicinò consigliandomi di parlare con il divisionario.
Io per tutta risposta, gli dissi che il divisionario era intento nell’ispezione e che non trovavo giusto anteporre i miei problemi a quelli dell’obiettivo della sua giornata. Probabilmente non volevo sentire l’ennesima brutta notizia.
Verso il termine dell’ispezione, però fu il divisionario che mi si avvicinò e che mi disse che ero stato scelto per diventare capo dell’istruzione di reparto (IDR) della scuola reclute di Friborgo ma che avrei dovuto candidarmi ufficialmente tramite il bando di concorso. Così quando usci il concorso per il posto mi annunciai subito.
Da sapere però che mi dovetti annunciare per la IBG/IBF (istruzione base generale / Istruzione base alla funzione) in quanto la IDR era un posto E3 (funzione salariale più alta) ma a Friborgo era occupata da un E3 e l’IBG/IBF era un posto E3.
La burocrazia a volte rende il gioco pesante.
Qui arriva il bello.
Nel frattempo ci fu il cambio del comandante della formazione d’applicazione e il cambio del comandante a Friborgo.
La nuova situazione comportò anche che il direttore (IBG/IBF) dovesse spostarsi quale capo IDR - praticamente erano giochi di potere, chi per esso aveva trovato il metodo di spostare una pedina da A a B.
Così durante il colloquio il mio responsabile HR, colonnello SMG Berger, mi disse candidamente: “So che si è annunciato per la IDR e quindi se non vuole il posto (IBG/IBF) lo daremo a qualcun d’altro”.
Tosto no? Contai fino a 10 prima di rispondere: “Certamente che sono contento di assumere la direzione dell’IBG/IBF”.
Mi ritrovai a Friborgo. Ero contento. Nel 2009 mi arrivò la conferma per il corso di formazione complementare (ZAL 1, presso l’accademia militare) e dal primo di gennaio 2009 sarei stato comandante del battaglione ospedale 5.
Quest'ultima notizia mi giunse a seguito di un incontro con il nuovo comandante della brigata logistica 1, il brigadiere Melchior Stoller.
Divertente fu il fatto che dopo aver ricevuto la notizia per il battaglione svizzero tedesco, alcuni giorni dopo per telefono, lo stesso brigadiere mi chiedeva se avessi preferito assumere il comando di un battaglione romando. Declinai subito l’offerta, non per la lingua o la cultura, ma perché ero più affine alla dialettica germanofona che francofona e poi anche perché il padrino del battaglione, sarebbe stato il mio ormai prossimo cantone di domicilio; il cantone di Zugo.
Durante il mese di dicembre 2008, fui convocato per un assessment che avrebbe confermato la mia attuale funzione. Questa volta in breve tempo, avevo ricevuto un ottimo feed-back.
Sempre nello stesso mese avevo effettuato positivamente il test TOEIC– Test per valutare le competenze della lingua inglese. Ed ora era l’ora di portare a termine con successo il corso di perfezionamento.
L’attività professionale era più che buona. Ebbi modo di accorgermi di possedere delle doti strategiche o meglio di possedere una visione globale che mi permetteva di non perdermi in futili dettagli.
L’inizio dello ZAL1– Zusatzausbildungslehrgang: un corso di formazione per accedere al livello successivo di competenze -era ormai prossimo ed ero molto felice di poter ancora una volta trascorrere un periodo come partecipante.
In quel periodo il mio obiettivo fu quello di mantenere una buona visione sui miei compiti e garantire qualità e successo alla mia scuola e ai miei collaboratori, nonostante le mie numerose assenze.
Seguire con altrettanto successo la formazione per poi concentrarmi strategicamente sul mio futuro significava l’ottenimento di un Master e gettare le basi per un proseguo della mia carriera.
Avrei voluto fare tante cose, avevo tante idee per la mente, ma il tempo a disposizione è sempre stato un limite. Dopo la prima parte dello ZAL 1, sono ritornato a Friborgo.
In quel periodo, intercorsero alcuni cambiamenti a livello di struttura di comando a seguito di un ulteriore aggiustamento delle strutture dell’esercito. Questo avrebbe comportato la soppressione della mia funzione. Mi rallegrai di questo cambiamento, poiché trovavo giusto che i team di unità fossero subordinati direttamente al comandante di scuola e non al direttore dell’IBG/IBF.
Praticamente ero un po’ come un comandante di scuola mini, dove la mia responsabilità spaziava nelle due prime fasi della SR, ma i mezzi strutturali e amministrativi erano appannaggio del livello scuola.
Tutto ciò avrebbe comportato l’assunzione di una nuova funzione, cioè di comandante sostituto, oppure di capo di stato maggiore della scuola.
L’organigramma non è ancora stato approvato.
Io in quel momento forse desideravo un cambiamento operativo di luogo ovvero di città, cantone, funzione. A giorni inoltre avrei celebrato anche il matrimonio religioso di cui ero mega contento e iniziato anche il mio primo corso di ripetizione, come comandante del battaglione ospedale 5!
I’m ready!
L’ultimo trimestre dell’anno 2009 è coinciso con la seconda parte dello ZAL I. Buon ambiente e clima positivo. Durante il corso, ero molto partecipativo e cercavo di contribuire alle diverse discussioni tematiche che venivano trattate.
Questa mia attitudine venne molto apprezzata anche dal comandante del corso. Durante l’apertura delle qualifiche il comandante mi disse “Ecco l’ultimo - ero l’ultimo ad entrare a ritirare le qualifiche - ma sicuramente non l’ultimo della classe. È stato molto attivo, e quello che diceva aveva spessore e non parole vuote o solo per fare muovere la bocca”. Alludendo a qualche intervento di altri partecipanti che evidentemente non gli era piaciuto.
Tornando alla mia funzione di Friborgo, avevo assunto la responsabilità definitiva di capo dello stato maggiore della scuola - quasi il 50% dei collaboratori mi era subordinato.
Se tutto fosse stato confermato come mi era stato comunicato dal mio capo ELS della formazione d’applicazione, a partire dall’ottobre 2011 per circa 8 mesi e mezzo, avrei seguito a Ginevra il corso per l’ottenimento del master in politica di sicurezza.
Nel 2010 per contro mi ero annunciato per l’ottenimento della certificazione civile in qualità de “Gestione di progetti”. Insomma tutto bene.
Dal primo di marzo assunsi anche la funzione di comandante sostituto. Questa funzione non era prevista. Sinceramente avrei preferito concentrarmi solo e unicamente sulla funzione di capo di stato maggiore e di pensare pian piano alla fase di avvicinamento del Master. Comunque cercai di svolgere al meglio anche questa importante funzione.
Dal primo di aprile mi veniva conferito il grado di tenente colonnello. Un grado che ho raggiunto con sudore. Non rimpiango quanto fatto. Come maggiore ho raggiunto molti obiettivi.
Il 2010 fu un altro anno frenetico ma positivo per molti aspetti. Le due funzioni erano molto interessanti e variegate, anche se la seconda mi fu data per salvare la funzione di E3 all’interno della scuola.
Come da programma, iniziai l’istruzione per ottenere la certificazione quale “gestione dei progetti” di livello C, che conclusi con successo nel mese di novembre.
Anche il mio impegno con la milizia con il mio terzo CR (il secondo con il battaglione ospedale 5) è da considerare un successo su tutti i fronti.
Continuai a restare focalizzato anche sui miei obiettivi personali; cioè l’ottenimento di un Master in geo-politica e lanciarmi in una nuova avventura, cioè l’assunzione di una funzione al di fuori del contesto di una scuola reclute dalla fine del 2011.
Desideravo ancora progredire!
Per farlo avevo bisogno di un master e di cambiare aria. Da troppo tempo ormai, il mio campo professionale era ristretto alla formazione della logistica, mentre l’esercito offre molte altre possibilità.
Il 2012 coinciderà anche con il mio ultimo corso da comandante. Il successivo corso fu speciale soprattutto anche perché il battaglione accudì a circa 40 pazienti portatori di handicap.
Per onor di cronaca e un certo piglio di fierezza, posso confermare di essere riuscito a prolungare di un anno il mio servizio di comando. Normalmente il comando è confinato a tre anni.
Ma ora torniamo al campo professionale.
L’obiettivo di una formazione superiore permaneva in me ma capii che dovevo modificare gli obiettivi. Partendo da questa convinzione fissai i miei obiettivi futuri: assumere un comando di una scuola (lungo termine), una funzione a livello amministrativo (medio termine) e il corso di formazione complementare ZAL 2 (breve termine). Ero fiducioso del fatto che durante la metà del 2012 avrei potuto cambiare aria per scoprire nuovi orizzonti.

“Non annotavo per distruggere,
bensì per costruire”
Ero sull’autostrada che da Coira (GR) porta sullo Julier per giungere poi via St Moritz (GR) a La Punt Chamues (GR) in alta Engadina. Sognavo sempre "la telefonata".
La telefonata arrivò.
Era un giorno freddo del febbraio 2012.
Era già caduto l’imbrunire, le temperature erano tipicamente invernali, quando fra Coira (GR) e Thusis (GR), il mio ex comandante di scuola e ora capo del personale, colonnello SMG Jean-Michel Charmillot, mi contattava telefonicamente. Mi offriva due possibilità, la prima era un posto alla base logistica dell’Esercito, mentre la seconda era al comando quadri superiori dell’esercito (scuola centrale) a Lucerna (LU).
Essendo accasato a Oberägeri, si poteva immaginare una scelta quasi obbligata per Lucerna. Per chi mi conosce bene, sa che per me non era importante solo il luogo di lavoro, ma anche il ruolo.
Scelsi Lucerna soprattutto perché volevo conoscere altro oltre che alla logistica. Con Lucerna (LU) sceglievo però una funzione – il capo-gruppo- che mi avrebbe rievocato diversi brutti ricordi risalenti al 2005.
Sentivo però il bisogno di rimettermi in gioco.
Inoltre per prassi per assumere il comando di una scuola era necessario avere anche un’esperienza al di fuori della propria formazione d’applicazione.
Regola questa che era riconosciuta valida all’occorrenza e solo per alcuni. In altre parole anche nel mio mondo militare, quando non si vuole qualcuno ci si appella alle regole, quando si vuole una persona, si fanno delle eccezioni.
Dalla metà del 2012 avevo anche ricevuto la proposta per seguire il corso di formazione complementare (ZAL 2) che era l’anticamera per ricevere un comando. Un periodo molto intenso, divertente. Tragitto ridotto, nuova funzione, partecipazione allo ZAL 2.
Avevo terminato con successo lo ZAL 2. Per me fu un’arricchente e ottima esperienza, coronata ancora una volta da un'ottima qualifica.
L’anno 2012 terminò così senza particolari problemi. Le prime esperienze come capo-gruppo allo stage di formazione alla condotta (SFC I) e allo stage di formazione di stato maggiore (SFSM II) furono più che positive.
Al termine della mia prima classe, il comandante sostituto della scuola centrale, si presentò in classe, stringendomi la mano, complimentandosi con i risultati e onorandomi con un premio spontaneo.
L’ambiente, la collaborazione fra i camerati era ottimale. Avevo intenzione di effettuare quattro anni in questa funzione per poi cercare di ottenere un comando di scuola. Ma la domanda era questa: ne vale veramente la pena? Vale veramente la pena diventare comandante di scuola?
La risposta che mi diedi fu che ne valeva la pena! Non certo per una questione economica in quanto la differenza della retribuzione era molto contenuta ma lo era per una motivazione intrinseca personale.
Dunque si, di principio ero molto interessato, ma non a tutti i costi e non una scuola che non mi rappresentasse.
Il tempo corre inesorabilmente veloce.
Era trascorso un anno e qualche mese e nella mia funzione di formatore alla scuola centrale, avevo alle spalle diverse classi e dunque il mio bagaglio di esperienza si era notevolmente arricchito. Un bilancio molto positivo. L’ambiente di lavoro era molto buono, le mansioni come capo-gruppo arricchenti.
Non passò mai un corso, dove non ebbi la possibilità di approfittare delle diverse esperienze “civili-militare” di qualche partecipante.
La vicinanza con il mio domicilio, giocò sicuramente a mio vantaggio. In famiglia ero più presente ed era una bellissima sensazione. Mi sentivo a casa. Iniziai così a valutare anche la possibilità di prolungare la mia permanenza nella Svizzera centrale. Nel 2016 scadeva infatti il mio servizio comandato presso la scuola centrale.
Mi ritrovai innanzi ad una alternativa: essere impiegato presso il comando MIKA (Management-, Informations-, Kommunikationsausbildung), presso l’accademia militare a Birmensdorf (ZH) oppure semplicemente prolungare l’attuale funzione.
Durante questi primi mesi, anni alla scuola centrale, ho cercato di assumere un comportamento spugna. Ho letto tantissimi libri tematici sui diversi conflitti, ho riletto approfonditamente i diversi regolamenti, ho migliorato le mie conoscenze nella tattica e sono diventato anche (per forza di cose) il punto di riferimento per le tematiche inerenti la logistica di impiego.
Avevo un terreno fertile anche per esplorare nuovi orizzonti.
La lettura e il confronto con i camerati, mi ha aiutato tantissimo a crescere.
Per chi ha letto attentamente gli obiettivi che mi ero prefissato, avrà notato che per la questione del Master è stata tralasciata. Ciò accade quando si ricevono notizie negative, nel senso che si finisce con il giustificarsi attribuendo la causa alle regole.
Nella fattispecie concreta, il Master a Ginevra mi era stato negato in quanto il mio CV non era idoneo per farmi diventare un “attaché militare”.
Inutile dire che alle regole si potevano fare tante eccezioni.
Infatti durante il colloquio d’entrata (luglio 2012) con il divisionario Daniel Roubaty - mio vecchio comandante di brigata, durante il mio primo corso da cdt, e ora comandante dell'istruzione superiore dei quadri dell'esercito (ISQE) - dopo avermi spiegato molto dettagliatamente le aspettative nei miei confronti, mi chiedeva se avessi avuto qualche desiderio.
Presi la palla al volo e gli espressi la mia intenzione di seguire un corso Master.
Fu un vero carpe diem.
Accolse positivamente la mia idea, dicendomi di parlare con il responsabile HR per inizializzare la mia domanda.
Dopo diversi mesi di peripezie, di formulari e di tira e molla, la mia richiesta fu accolta positivamente. Dal 2014, avrei potuto seguire il corso Executive MBA presso la HTW di Coira (GR), oggi Fachhoschule Graubünden.
Torniamo verso la fine del 2013.
Da tempo circolava la voce di un cambiamento al comando della scuola centrale di Lucerna. Voci insistenti davano il comandante della brigata di fanteria 5, brigadiere Daniel Keller, quale possibile candidato per questo posto. Keller era un ufficiale sicuramente di valore ma non andava a genio a diverse persone.
Come sappiamo, poi le storie hanno la tendenza ad ingigantirsi. Per quanto mi concerne ero abbastanza sereno e sicuramente anche curioso sui cambiamenti che sarebbero intercorsi da lì a qualche mese.
Uno dei primi rapporti con il nuovo comandante, brigadiere Keller fu di questo tenore: “prendete un foglio bianco, scrivete in altro a destra grado e cognome”!
Ecco come uno degli spauracchi diventava realtà.
Regolarmente – e nel pieno diritto – ci metteva alla prova su diverse tematiche.
Certo non a tutti piaceva il suo modo di fare ma voglio lanciare una freccia a suo favore: durante il periodo di comando alla scuola centrale, ho imparato tantissimo e il merito è sicuramente è anche da imputare alle innumerevoli richieste ed esigenze che chiedeva al corpo insegnante.
All’inizio non fu facile. Avevo una buona esperienza di vita e di lavoro nelle diverse funzioni e mi sentivo coinvolto nelle diverse attività e metodi. Dovevo però fare anche i conti con il mio carattere.
Se non sono d’accordo, lo comunico.
Il mio rapporto con il nuovo comandante fu dunque da subito conflittuale per poi trasformarsi presto in cooperazione proficua.
Durante uno dei primi colloqui personali, mi espresse il suo disappunto per la mia scelta di seguire un corso di perfezionamento, al ché gli risposi scherzosamente che apprezzavo la sua sincerità, ma dato che avevo ricevuto l’ok, la prendevo solo come informazione senza troppa importanza.
Un giorno durante il rapporto ordinò che, durante le assenze di corsi, il corpo insegnante avrebbe lavorato secondo un preciso programma e in caso di assenze anche di 15 minuti, si doveva richiedere la previa autorizzazione.
Alzai la mano.
Nota bene in questo periodo nessuno diceva niente. Gli chiesi, dato che io arrivavo di regola da 30 a 45 minuti prima dell’orario fissato, se dovevo a mia volta richiedere il permesso di iniziare il lavoro prima del tempo. Silenzio.
Un leggere venticello gelido pervase la sala della riunione. A questo punto sapeva chi ero.
Un secondo fatto di cronaca. Durante una riunione, ci dette delle direttive ma un paio di settimane dopo, sempre sullo stesso tema, comunicò delle direttive che non coincidevano più con le prime. A questo punto – a volte so divenire anche teatrale, aprii il mio Moleskine nero e provocatoriamente leggevo lentamente, guardandolo negli occhi, le prime annotazioni e le nuove direttive. Al termine gli chiesi gentilmente di dirmi quale direttive fossero effettivamente valide.
“Rappazzo! Nel mio ufficio” - mi urlò.
Ne seguì un animata ma corretta discussione. Un capo, come un collaboratore non sono perfetti. Ci si può confondere, contraddire. Come corpo insegnante, volevamo fare veramente bene, lavoravamo bene insieme, anche dopo gli orari ufficiali, ma era difficile gestire repentini cambiamenti. Il mio Moleskine e piattaforma elettronica, si stavano piano riempiendo di direttive, di esempi metodologici che cercavo di applicare il meglio possibile.
Non annotavo per distruggere, bensì per costruire.
Il 2014 fu un anno difficile ma probabilmente l’anno dove ho imparato di più. Penso e credo che all’inizio del nostro rapporto lavorativo, Keller avrebbe ben visto un mio prematuro allontanamento ma poi le cose sono cambiate. Ho saputo tenergli testa e il mio rendimento con le classi era molto buono.
Il nostro confronto si è tramutato in proficua collaborazione anche grazie al fatto che ho saputo trasmettere le mie convinzioni. In aggiunta durante questo periodo stavo approfondendo considerevolmente l’aspetto tecnico e di contenuto inerente la mia funzione.
Verso la fine del 2014 ero nell’ufficio di Keller e mi disse: “Signor tenente colonnello, Alessandro, ti voglio come capo team!”.
Per pronta risposta, gli feci notare che a breve avrei voluto iniziare la formazione Master. Parole al vento.
Con il 2015 assumevo la funzione di tema leader e diventavo così responsabile per l’istruzione dell’appoggio dell’esercito per le autorità civili.
Ero alla metà del mio servizio comandato alla scuola centrale e la seconda metà l’avrei effettuata a capo di un piccolo team. È stato sicuramente un periodo arricchente, soprattutto per il fatto avrei dovuto coordinare i lavori di altri colleghi capi-classe e una certa responsabilità nell’istruire il corpo insegnante nei diversi esercizi.
Il rapporto con Keller si rafforzò con il tempo e non fu un caso che durante i diversi rapporti la mia parola venisse ascoltata attentamente e nel caso di differenze avvalorava il mio punto di vista.
Il mio incarico ero previsto per quattro anni, Keller non si sarebbe espresso negativamente se fossi andato via prima. In realtà sono rimasto e verso la fine dei quattro anni, restai alla scuola centrale e iniziai un nuovo servizio come comandante presso il comando MIKA.
A volte i confronti pagano ma non sempre ciò è una regola.
Dopo quattro anni trascorsi ad istruire ufficiali degli stati maggiori di battaglione, da quest’anno i miei partecipanti non saranno più in grigio-verde, bensì saranno civili.
Il compito assegnatomi fu quello di trasferire le conoscenze militari (le nostre attività di condotta) ai quadri civili.
L’intento perseguito era quello di rendere più sensibili i partner civili nel considerare per i propri dipendenti una carriera militare.
In secondo luogo, i nostri corsi offrivano e continuano ad offrire la possibilità anche per chi non ha dimestichezza con i processi in caso di crisi, di apprendere ed esercitarsi con un metodo comprovato.
Ancora oggi sono sicuro, se non avessi agito come feci agli inizi del 2013, se mi fossi conformato e basta, se non avessi avuto la voglia di approfondire le mie conoscenze militari, se non avessi seguito il corso Master, probabilmente ora sarei su un altro pianeta.
Grazie a questi e sicuramente a tanti altri piccoli tasselli, ho trovato una funzione che oggi ancora dopo quattro anni mi affascina e ha favorito la mia rete sociale professionale aprendo nuove strade agli imminenti cambiamenti che interverranno con l’ingresso sempre più veloce della digitalizzazione.
Anche se devo continuamente mettermi in gioco, so di essere un bravo insegnante, so motivare e probabilmente la mia indole da ticinese mi rende maggiormente simpatico.
Continuo a commettere errori ma questi non sono importanti se mi fanno progredire. Sono però ancora molto irrequieto. Vorrei dedicarmi di più sulle tematiche legate alla, leadership – esercito – digitalizzazione – futuro; il tutto in chiave progettuale.
Gli anni comunque passano e a sessanta, cioè ormai meno di una decade, andrò in pensione. Attualmente e se la salute me lo permetterà ho l’intenzione di coltivare questi miei interessi.
Per avere copiosi risultati i semi dovranno essere piantati nei prossimi anni. Fino alla fine della mia carriera professionale ho ben chiaro il mio desiderio: crescere e far crescere.
Una cosa è certa:
(Alessandro Rappazzo)

“...il futuro siamo noi”
Caro Albert,
siamo nel 2020, avevo pianificato l'anno in corso.
Mese per mese, giorno per giorno, quando improvvisamente la parola COVID-19 è entrata nella vita di ogni uomo, in un susseguirsi di comunicati e misure.
Di colpo intere categorie di persone, di società, di Stati si sono trovati con un'emergenza che ben presto potrebbe mettere a dura prova la nostra percezione di sicurezza, facendoci uscire dalla nostra zona comfort.
Il COVID-19 non è una guerra e trovo esagerato il pensiero di coloro che paragonano l'epidemia con una guerra.
Un secolo addietro sicuramente questa pandemia avrebbe avuto conseguenze più letali delle attuali.
Il COVID-19 sicuramente sta causando un rallentamento del passo nella società frenetica in cui viviamo, risvegliando al tempo stesso una maggiore sensibilità su diversi temi, quali l'impatto ambientale, la mobilità e il ruolo della tecnologia.
Sono triste per le dipartite premature di chi a causa del virus è venuto a mancare; vedo però in questa crisi anche delle opportunità per muovere la nostra società in un prossimo futuro che non deve per forza essere negativo.
Nel campo delle relazioni fra Stati osservo la necessità di una migliore comunicazione e collaborazione. Dovrebbe essere chiaro che un'epidemia non può essere fermata alle frontiere. Anche in epoche dove la mobilità e gli spostamenti erano arcaici, l'epidemia non conosceva frontiere e anche se lentamente sapeva cancellare dalla faccia della terra importanti fette di popolazione. L’essere nazionalista non deve necessariamente sfociare in una dimensione anti globalista; come asseriva lo storico Yuval Noah Harari, il buon nazionalista ha a cuore il suo popolo ma per fare questo, deve collaborare con altri popoli.
Mobilità, ecologia e urbanistica. Tre parole per un tema.
La mobilità deve essere ripensata, il collasso ecologico è sempre alle porte e le nostre città devono essere urgentemente ripensate.
Lo sviluppo, di energie alternative a favore di questi temi potrebbe dare un nuovo impulso ad un sostanziale miglioramento; per fare questo però abbiamo bisogno di leader innovativi e intraprendenti.
Credo che tali sfide hanno e avranno o un denominatore comune: la tecnologia dirompente.
L'intelligenza artificiale, la realtà virtuale, e i big Data entreranno gioco forza nella nostra quotidianità, dando un ulteriore accelerazione al cambiamento.
Sta a noi cogliere per tempo i segni del cambiamento.
Il futuro non è ancora scritto. Il futuro siamo noi, siamo noi che scriveremo le pagine della nostra storia. A noi quindi la responsabilità di cogliere le opportunità di questo sviluppo a scapito di neri scenari. Walt Disney disse: "È quasi divertente fare l'impossibile".
Si, caro Albert sono consapevole che il futuro è nelle nostre fragili mani.
Un saluto affettuoso Albert e grazie di avermi letto!
Alessandro Rappazzo
Post scriptum:
Dico “Albert” - Leggi “lettore, uomo, amico”.
Ogni riferimento alla figura di Albert Einstein, il più importante fisico del XX secolo, inserita in questo testo, è da considerare come interpretazione più allargata dell’essere umano. Credo infatti che qualcosa di superbamente intelligente e stupendamente geniale stia dentro la mente e il cuore di ogni uomo.

(1) La Famiglia Rappazzo ha oggi questo stemma
Uno scudo azzurro con un leone d'oro, seduto su una montagna d'argento e appuntito con fiamme di rosso, che affronta e tiene nella mano destra fra gli artigli una spada d'argento, e nella sinistra un fascio di spighe d'oro. Un elmo d'acciaio lucido è impresso, delineato e inchiodato d'oro, foderato di rosso, e posto rivolto verso la mano destra, con cercine e lambrecchini di azzurro, piegato d'oro. In cima, un fuoco ardente con un'aquila che ne esce, fatta di sciabola, tagliata in oro e con una lingua di rosso. Sotto la punta, un nastro con il nome della famiglia "Rappazzo".
La certificazione è avvenuta nel mese di novembre 2018.

STOP
PARTE SECONDA
APPROFONDIMENTO DELLA MIA CARRIERA MILITARE
Riservata ai militari,
agli aspiranti militari e...
“...dove imparai ancora di più
il significato di responsabilità”.
Ce l’avevo fatta!
Ricevetti la proposta per diventare un ufficiale di milizia dell’esercito svizzero. L’euforia lasciò presto spazio ai pensieri di tutto ciò mi sarebbe accaduto esattamente un anno dopo.
La data era il mese di luglio del 1989.
Nutrivo una grande aspettativa per questa nuova sfida e ricordo che già nella prima settimana purtroppo accaddero diversi incidenti di percorso.
L’episodio che rammento ancora oggi, riguardò un collega che, durante una delle prime lezioni di sport, ebbe un problema con un attrezzo; lo sfortunato dopo una visita con il medico di truppa e un enorme bendaggio, fu licenziato.
La condizione fisica in quel contesto era importantissima.
Per mia fortuna, dal termine del pagamento grado caporale all’inizio della scuola ufficiali, decisi di dedicare molto tempo allo sport. Dal lunedì al venerdì mi allenavo intensamente con la bicicletta e con la corsa mentre durante il fine settimana, grazie anche agli impegni scout, avevo tempo anche per le marce.
Ero pronto.
All’interno della scuola ufficiali, ero nella classe “tutti frutti”, comprendente aspiranti trasmissioni del genio, del sostegno, e così via; le altre classi invece erano dei “puri”, ovvero appartenenti esclusivamente alle truppe trasmissioni.
Quindi identica classe e stessa pattuglia per le marce.
Obiettivo era la 100 km.
Dei partecipanti il più alto era circa 180 cm e il più basso 165 cm. Si trattava di pochi centimetri di differenza ma sufficienti a procurarmi qualche grattacapo.
La prima marcia era individuale e a tempo.
Subito dopo la partenza, un aspirante del genio, molto più prestante di me, passandomi accanto mi disse: “ehi piccolo se hai bisogno di aiuto…”.
La mia pressione arteriosa salì a mille!
Feci una partenza a razzo e fino a metà percorso ero in buona posizione. Poi persi la bussola. Letteralmente. Quando me ne accorsi era ormai troppo tardi. Rischiai infatti di arrivare oltre il tempo limite.
Il livello di adrenalina era molto alto e la paura di non farcela anche. Ma ce la feci. Si a pelo. Qualche secondo di più sarei arrivato oltre al tempo limite.
All’indomani della marcia, ecco il turno della “dodici minuti”. Partii in tromba e prima della fine, doppiai un’aspirante, l’aspirante del genio. Lo guardai e soddisfatto gli dissi: “ehi grande se hai bisogno d’aiuto…”.
Il capo-classe era una persona particolarmente intelligente; era anche il responsabile della scuola dell’insegnamento della tecnica della trasmissione.
Il mio tedesco invece era zoppicante, per cui quelle ore di teoria erano per me una vera e propria nenia e orrore. Il livello era altissimo anche per chi era di lingua madre tedesca: il docente era un teorico.
Durante la dislocazione eravamo a Walenstadt (SG) e mentre le altre classi si esercitavano con le munizioni vere in esercizi di combattimento, la nostra si esercitava nel compilare dei cartelloni. Eravamo frustrati.
Il giorno seguente, questa volta a Sankt Luzisteig (GR), ci stavamo rassegnando ad un’altra giornata volta a compilare cartelloni, quando l’aiutante di classe mise “in congedo” il capo-classe.
Era l’ora della pratica!
Una delle più belle giornate di tiro.
Se durante le famose ore di teoria sulla tecnica, molti e soprattutto le classi “tutti-frutti”, lottavano con forza per non addormentarsi, durante le ore sul terreno a tirar fili e lanciar granate, dove tutto quello che facevamo era pratico, erano tutti imbattibili. I “grigi”, pseudonimo che deriva da colore delle truppe di trasmissione, invece non erano proprio a loro agio.
Un aspetto interessante della Scuola Ufficiali, oltre allo sforzo fisico e alla metodologia dell’istruzione, era anche l’educazione.
Ogni qualvolta infatti, ci fossimo trovati a pranzare o cenare in caserma, dovevamo liberarci della mimetica sporca sostituendola con quella di uscita. Il momento dei pasti erano considerati come una lezione. Le regole del comportamento, anche se probabilmente, non determinanti per la riuscita della scuola, facevano parte della materia d’insegnamento.
Per quanto concerne le marce, dovevamo imparare a fidarci gli uni degli altri, aiutarci reciprocamente.
Durante la sessanta chilometri feci il terribile errore di cercare di rimanere al passo con il resto della pattuglia. Essendo il più piccolo cercavo ugualmente di muovermi come il più grande.
Risultato: dopo quaranta chilometri mi stesi sulla strada. Fine della marcia. Fu anche la prima marcia dove ebbi problemi. Una sconfitta. Difficile da metabolizzare.
Arrivò presto la settimana di resistenza.
L’esercizio per eccellenza. I ricordi sono ancora vivi.
L’attesa, il non sapere troppo erano fattori che accrescevano la motivazione. Martedì 3 ottobre 1989, 1330. Tempo buono. Spostamento da Bülach (ZH) a Zurigo Aeroporto con il camion, poi spostamento in treno fino a Yverdon (VD) per poi raggiungere la caserma di Chamblon (VD) con il bus. Arrivo fissato per le ore 18:00. Tempo ventoso e freddo.
Martedì 3 ottobre 1989, ore 23:30. Tempo sempre ventoso e freddo. Notte. Diana[1]. Preparazione finale alla marcia.
I primi settantadue chilometri erano conosciuti.
Mercoledì 4 ottobre 1989, ore 00:00. Iniziò la 100 Km con un colpo di pistola a salve. Con grande motivazione, iniziammo la lunga marcia accompagnandola con qualche canzone.
Carta nr. 5020 e 242 (1:50000). Chamblon (VD), Yverdon (VD), Estavayer le lac (FR), Autavaux (FR), Chevroux (VD), Portalban (FR), Cudrefin (VD), Mont Vully (FR), Sugiez (FR), Fräschels (FR). Tempo buono, il vento e il freddo scomparirono. Durante questa prima parte ci venne servito una colazione e un pranzo.
Carta nr. 5016 (1:50000), Oltingen (BL), Salvisberg (BE), Wohlei (BE), Frauenkappelen (BE), Oberwangen (TG), Niederscherli (BE). La 100 Km ebbe termine. Ore 21:45. Tempo buono ma freddo.
Alle ore 23:30 riuscii a mettermi finalmente a letto. Durante la difficile azione di farmi la doccia, mi accorsi che durante la marcia avevo perso l’unghia del mignolo del piede destro e sinistro! Forse fu a causa della stanchezza ma non avvertivo alcun dolore. Pensai: «Ecco fatto, pensavo peggio!».
Moralmente ero super motivato e questo mi ha facilitò molto. Negli ultimi dieci chilometri dovetti abbandonare il sacco poiché i miei problemi di tendinite e dolori alle ginocchia si erano acutizzati.
Si, ero stanco ma ero comunque ancora molto lucido.
In pattuglia eravamo in quattro, come già detto tutti del sostegno. Durante il percorso a turno accusammo un po’ tutti i nostri momenti di alti e bassi. Ognuno di noi a turno si prese la responsabilità di condurre, di motivare e di ordinare.
Giovedì 5 ottobre 1989.
Sveglia ore 05:00. Una catastrofe. Le mie ossa non rispondevano. Tempo bello ma freddino. Con non pochi problemi e carico di tutto il mio equipaggiamento uscii dall’accantonamento e mi accorsi di essere l’ultimo della scuola. Nessun problema. Per questa mia performance fui designato come capo-gruppo della fase seguente. Quindi mentre gli altri dormicchiavano durante lo spostamento io mi sarei dovuto dilettare nella pianificazione del percorso. Accantonamento Niederscherli (BE) fino ad Interlaken Est (BE) spostamento con il camion, poi fino a Giswil (SO) spostamento in bicicletta. Giswil (SO), Sachseln (OW), Kerns (OW), St Jakob (NW), Stans (NW), Beckenried NW, dove abbiamo pranzato; poi proseguimmo con il battello fino a Gersau (SZ). Di nuovo in bicicletta da Gersau (SZ), Brunnen (SZ), Schwyz (SZ), Sattel (SZ), Morgarten (ZG).
A Morgarten (ZG) seguimmo una lezione di storia sulla battaglia di Morgarten (ZG). E via di nuovo fino a Zweite Altmatt (SZ) dove era in programma una sequenza di esercizio in tema combattimento, poi via alla volta di Rotenthurm (SZ) per un esercizio di tiro per arrivare in camion all’accantonamento a Schindellegi (SZ).
Dicevo prima cosa? In bicicletta? Qui pensavo proprio di non farcela. Con mio grande stupore invece fu un toccasana. Dopo un difficile inizio le mie gambe si sciolsero. Mi sentivo bene. Avevo sì ancora dolori alle ginocchia, ma era sopportabile.
Alcune centinaia di metri prima dell’esercizio di tiro, a Rothenthurm (SZ) ero davanti al gruppo a velocità abbastanza elevata quando, dopo aver imboccato una stradina laterale oscurata dalla notte, andai a imbeccare un filo di metallo che bloccava l’uscita del bestiame. Risultato: filai dritto per terra con tutto l’equipaggiamento. Probabilmente a causa della stanchezza e dell’aria fresca della sera, rimasi per terra. Tremavo.
Ecco che il medico mi caricò sul Pinzgauer sanitario e mi dette una coperta. Cercai di dormire. Dopo un’oretta circa mi ritrovai a Schindellegi (SZ), dove mi diedero la missione di organizzare l’arrivo del resto della scuola.
Ero contento di aver evitato un paio di esercizi ma anche di aver pedalato per circa ottanta/novanta chilometri.
Venerdì 6 ottobre 1989, diana alle ore 05:00. Tempo buono con nebbia. Spostamento con camion da Schindellegi (SZ) a Weinfelden (TG), da Weinfelden in un non meglio precisato bosco nei dintorni di Dozwil (TG), con il solito equipaggiamento e venticinque chilometri di pedalata in bicicletta. Il clima verso le 16:00 divenne freddo e piovoso.
Il PC, ovvero il posto di comando d’esercizio si trovava a circa cinque chilometri dal bivacco. Chiaramente la cena era nel settore del PC.
Il tempo era sempre più cupo. Pioggia, pioggia e guardia[2]. oppure guardia nelle vicinanze del PC in un Pinzgauer ABC.
Sabato 07 ottobre 1989 dalle ore 06:00 e le 07:00.
Allarme C. Due ore e trenta di maschera. Tempo sempre freddo, coperto e dopo le 14:30 pioggia. Durante la giornata cucinammo una trota fresca. Ciò Significava che dovevamo prendere la vittima da una vasca, ucciderla e cucinarla.
Per il resto del tempo; guardia. Visita del brigadiere Bidermann. Giornata tranquilla.
Domenica 8 ottobre 1989.
Dopo aver trascorso due o tre ore di sonno, ecco la diana, ore 05:00. Tempo: pioggia scrosciante.
Ricevemmo l’ordine di smontare tutto il bivacco e di recarci in un settore d’attesa per le 08:00. Dal bivacco fino a Steinebrun (SG) con la bicicletta. Circa 10 chilometri. Da Steinbrunn (SG), Bischofszell (TG), Gossau (SG), St. GallenWinkeln (SG) fino ad Herisau (AR) con il camion. Nevicava.
Dopo aver assistito alla funzione religiosa fummo così pronti per i prossimi due giorni che erano focalizzati sul servizio tecnico delle trasmissioni.
Così da Herisau (AR) ci spostammo via Waldstatt (AR), Urnäsch (AR), Gonten (AI) – dove una pasticceria attirò la nostra attenzione – Appennzell (AI) per giungere infine a Eggerstander (AI).
In questo luogo in un punto non meglio definito, prendemmo possesso di un RAA, ossia un rifugio permanente antiatomico.
Quello che ricordo è che in quei due giorni potei dormire per molto tempo.
Lunedì 9 ottobre dopo una diana sotto la pioggia infine arrivò il sole e l’ultima marcia. Un tragitto di cinquanta chilometri.
Dopo aver raggiunto il punto di ritrovo da Herisau (AR) fummo trasportati su un camion fino a Kaltenbach (TG).
Da lì ebbe inizio la 50 km.
L’esercizio di resistenza stava per giungere al termine.
Il percorso portava da Kaltenbach, Bleichi (ZH), Schaltingen (ZH), Truttikon (ZH), Chastelhof (ZH), Oerlingen (ZH), Marthalen (ZH), Waltbüel (ZH) – breve sosta per il tiro con la pistola, otto colpi, otto centri – Ellikon (ZH), Ziegelhütte (ZH), Tösseg (ZH), Tössrieden (ZH), Glattfelden (ZH), Hochfelden (ZH), Niederhöri (ZH) ed infine Bülach (ZH).
Pensavo che l’esercizio fosse finito.
Fu un errore. Mentalmente fu un errore.
Dopo trentacinque chilometri per i dolori al ginocchio abbandonai la marcia.
L’abbandono ritengo ancora oggi, fu più dovuto a un problema di resistenza mentale piuttosto che fisica. In ogni caso fu un errore: la cento chilometri infatti era ormai alle mie spalle e la settimana di resistenza, anche!
Ormai la fine della scuola ufficiali era prossima e non vedevo l’ora di rientrare in Ticino a raccontare le mille emozioni. No! Niente da fare. Pensavo di aver terminato ma non era così. Dato che non avevo portato a termine la cinquanta e come me molti altri, fummo caricati subito dopo l’appello di sabato su un camion, trasportati verso un punto non ben precisato e scaricati.
Con carta alla mano, l’obiettivo era il rientro in caserma. 50 chilometri! Durante il tragitto che portava dalla caserma al punto di partenza, ricordo il mio nervosismo. Volevo andare a casa! Perché dovevo rifare la marcia?
Dopo i primi chilometri di marcia, il mio stato nervoso si trasformò però in adrenalina. Un’adrenalina che mi portò a terminare la marcia in un ottimo tempo. Molti chilometri li percorsi a passo di corsa.
Alla fine la tensione lasciò spazio alla soddisfazione.
Evviva! Ma prima della promozione, della resa del materiale, ci fu ancora posto per l’ultima prova sportiva; il famoso test di Macolin[3].
Questa volta, a differenza della scuola reclute, non ebbi remore, volevo arrivare primo ma dovetti condividere il primo posto con il mio compagno di pattuglia.
Rimase comunque una bella vittoria personale.
Arrivò così il giorno della promozione.
Soletta (SO), 28.10.1989.
Ero fierissimo non solo per il semplice fatto di essere riuscito a superare così tante prove, momenti belli e meno belli; ero anche fiero di essere svizzero e di poter fare qualche cosa per il mio Paese.
Sì lo so ci sono tante altre figure professionali quali il medico, il pompiere, il musicista, il monitore di qualche società; però io ero convinto che in un’organizzazione gerarchica, non proprio del tutto volontaria, potevo dare qualche cosa in più.
Ci credevo e guarda un po’ ci credo ancora oggi.
E finiamola con l’idea di un esercito professionista oppure con un esercito volontario. Per la piccola Svizzera non funziona!
Mi piace ancora oggi accarezzare l’idea che viviamo in una Nazione sicura e prospera anche per merito, in piccola parte, del nostro sistema di milizia.
Non divaghiamo e andiamo oltre.
Era il periodo della nostra difficile storia contemporanea: il crollo del muro di Berlino e la conseguente dissoluzione dell’Unione Sovietica. La pace, niente esercito. Lasciamo correre!
Ho ancora in mente il ballo degli ufficiali che si consumò all’Hotel Palace a Lucerna. Lì in quel momento il senso dell’esercito, il dovere lasciò il posto alla soddisfazione, all’orgoglio del risultato ottenuto.
Dopo tre estati trascorse interamente sotto le armi, decisi di posticipare il pagamento grado di tenente di un anno. Infatti, il 1990 coincideva anche con un grande avvenimento scout; il campo scout di tutte le sezioni del Mendrisiotto. Non volevo di certo mancare! Chi si poteva perdere l’occasione di fare il capo-indiano?
Parallelamente alla mia carriera militare, in quel periodo, mi impegnavo anche nel settore civile. Avevo voglia di imparare, lavorare intensamente era per me normale.
In poco tempo divenni il sostituto del mio capo e le mie capacità erano molto apprezzate. Molte esperienze acquisite come militare, le applicavo nello svolgere le mansioni civili, in particolare nell’approccio ai problemi e all’organizzazione.
Dato che volevo progredire anche nel campo civile, chiesi e ottenni il permesso di spostarmi a San Gallo presso una succursale. Quella fu una bella esperienza, interrotta prematuramente dall’infortunio alla caviglia che mi costrinse a casa per parecchi mesi.
Ordine di marcia. Destinazione Berna. Pagamento del grado di tenente. Volevo essere il migliore. Dimostrare a me stesso che potevo farcela. Dimostrare agli altri che malgrado la mia statura, il fatto di essere ticinese, ce la potevo fare.
Malgrado però tutta la mia esperienza nel privato e ai giorni trascorsi in grigio-verde, non avevo certamente l’esperienza di condotta.
Ero a Berna proprio per fare questa esperienza. Ero pronto tecnicamente ma 45 reclute con tre soli capi-gruppo non era certo una cosa da prendere alla leggera.
Ricordo che la maggior parte della sezione era svizzero tedesca, una piccola parte romanda. Con una parte della sezione potei lavorare e richiedere anche prestazioni molto elevate mentre con il resto era quasi un inferno.
Senza volerlo, privilegiavo coloro che riuscivano a essere eccelsi sia nelle prestazioni fisiche, sia nella tecnica. Coloro che non erano all’altezza delle massime aspirazioni non li consideravo molto – a parte il rispetto della persona che sempre ho mantenuto.
Questo però era un errore! Ammetto di averlo commesso! Il tempo mi ha permesso di comprenderlo in maniera piena e di migliorare così sempre più il mio comportamento.
Un giorno dopo una giornata di tiro, presi la decisione di rientrare al passo di corsa. Il percorso era di una decina di chilometri. Dato che volevo estendere tale prestazione al gruppo, chiesi alla sezione chi volesse seguirmi mentre per coloro che non se la sentivano avrei provveduto al loro rientro con il trasporto militare. In questo modo, se da una parte stimolavo i migliori, dall’altra mettevo in disparte coloro che non riuscivano a seguirmi. Era questo l’errore.
Torniamo ad alcuni episodi particolarmente carichi di emozioni, esperienze sia positive che negative.
Negli anni novanta era normale e logico poter istruire le reclute alla granata, utilizzando le granate marcanti d’esercizio, negli spazi adiacenti la caserma di Berna.
Uhi, oggi se fai una cosa simile, il comando della piazza d’armi rischia di essere tempestato da cittadini adirati per i continui botti che perturbano la quiete del vicinato.
A volte mi chiedo se ha ancora senso avere una caserma nel bel mezzo di una città che ti tollera appena.
L’istruzione consisteva nel getto della granata a cui faceva seguito l’esplosione di un petardo. Data la mancanza di capi-gruppi, anche io seguivo una squadra.
Durante la parte teorica tutto bene. Poi durante la fase pratica una recluta, non ricordo il nome, si rifiutò di gettare la granata. Il motivo addotto fu la paura.
Penso che in quella occasione, riuscii a farmi odiare a morte: il povero malcapitato non solo piangeva a dirotto ma lo obbligai a lanciare non una, ma diverse granate.
In quel momento, i miei pensieri tornarono indietro di alcuni anni sul mio primo colpo sparato con il mio fucile Fass 57, 210895.
Mi ricordo – ancora oggi come ieri – che dopo aver ricevuto l’ordine di aprire il fuoco – passarono interminabili secondi prima che il mio dito producesse la necessaria forza per fare scattare il cane e quindi esplodere il colpo.
Non era solo paura dell’arma, ma anche rispetto dell’arma. Rispetto per quello che l’atto del premere il grilletto o il getto di una granata poteva significare.
Come giovane tenente ero pronto ad istruire tecnicamente; ero pronto con tutte le mie forze a raggiungere gli obiettivi.
In fin dei conti, l’atto consisteva nel tirare o nel gettare una qualche cosa. Sul significato però di quel gesto ero però meno preparato.
Il pagamento del grado andava avanti senza particolari intoppi. Per meglio giungere al termine del congedo del fine settimana, rientravo in caserma alcune ore prima per poter preparare ed evadere tutte le pendenze amministrative, con l’obiettivo di potermi concentrare esclusivamente sulla condotta. Così tra marce, scuola di sezione, esercizi arrivò la solita settimana di resistenza. Erano di circa 35 km.
Purtroppo a seguito della riforma anche la 50 chilometri era stata dichiarata – almeno per la nostra truppa – estinta.
Ancora oggi dico: che peccato!
Erano soli trentacinque chilometri. Comunque, verso la fine oltre al mio equipaggiamento avevo sia alla mia sinistra, sia alla mia destra due soldati della mia sezione. Con grande sforzo e dispendio di energie, riuscimmo ad arrivare al settore di attesa.
Gli ordini erano chiari. Sezione trasmissione Rappazzo, prende posizione nella fattoria a destra e assicura il proprio stazionamento.
Lo ammetto ero stanco. Molto stanco. Così misi tutta la sezione in fretta e furia a letto, chiusi la porta e misi un soldato di guardia.
Luci spente. Buona notte.
Fine del sogno.
Avevo sbagliato.
Il comandante di compagnia, nero e fuori di sé, probabilmente a seguito di qualche controllo della scuola mi chiamò a rapporto, ordinandomi di pianificare la sicurezza come dovuto e questo nei successivi trenta minuti.
Uha! Chiaro. Presente capito. Ripeto l’ordine. Parto!
Rientrando nel mio stazionamento, mi chiedevo quale fosse stata la soluzione migliore per risolvere la situazione. Io ero nel torto e lo sapevo. Scelsi l’informazione e la comunicazione. Ammisi che avevo commesso un errore di valutazione, comunicai gli ordini ricevuti che ritenevo giusti e ordinai ad un capo-gruppo di organizzare la guardia, come da mie direttive. La situazione fu compresa. Tutto si risolse al meglio. Quella fu un'altra giornata dove imparai ancora di più il significato di responsabilità e l’importanza di una chiara condotta.
La settimana non era terminata. Avevamo ancora l’ispezione finale ovvero quell’ispezione che doveva confermare la nostra buona preparazione – e parallelamente l’ispezione che valutava anche il corpo insegnante.
L’ispezione della sezione trasmissione, consisteva in un esercizio di gruppo condotto dal capo-sezione. Probabilmente anche una scuola di sezione. Così dovemmo sostenere un grande sforzo nella parte tecnica.
La sera precedente l’ispezione, non ricordo se il mio comandante di compagnia o il mio istruttore tecnico, chiese di preparare anche un posto di lavoro di sezione per i gruppi non coinvolti nell’esercizio di gruppo.
L’enfasi di tale ordine non fu però resa precisa tanto meno imperativa, di conseguenza ordinai anch’io al mio sostituto di preparare un posto di lavoro di sezione. Io non controllai. Il mio comandante di compagnia neppure. Il personale insegnante della scuola neppure.
Giorno dell’ispezione. Presentazione della compagnia. Solita trafila. Poi arrivò il turno del mio esercizio. L’esercizio iniziò. Dopo alcuni minuti, l’ispettore di turno comunicò candidamente la validità dell’esercizio ma voleva vedere il posto di sezione.
Così chiese al Sott’ufficiale di professione una valutazione, chiedendomi di condurlo al posto di istruzione.
Mi fu posta questa domanda: “tenente, a piedi quanto?”.
Risposi: “cinque minuti signor divisionario - brigadiere”.
Dopo cinque minuti - direi molto lunghi e dove sudai più del dovuto –l’ispettore mi comunicò che non vedeva ancora il posto e il tempo era scaduto. Un po’ adirato risposi che i 5 minuti erano al mio passo, e che mi ero adeguato al suo.
Dopo nove minuti giungemmo al posto che non era un posto. Un cartellone con una descrizione sommaria del contenuto dell’istruzione e nulla di più. Il deserto del Sahara era ancora più pieno.
Anche qua presi il coraggio, guardai l’ispettore negli occhi e dissi semplicemente che non avevo controllato quanto avevo ordinato e che mi assumevo la responsabilità. Poi gli dissi che era inutile continuare a guardare e consigliai di interrompere l’ispezione al posto.
Di ritorno – e fortuna che avevamo 9 minuti – penso che la pressione di tutti poté scendere. La valutazione che inizialmente era molto buona – magicamente scese a buona.
Una brutta ispezione dunque.
Penso che anche coloro che avrebbero dovuto aiutarmi o indirizzarmi, abbiano avuto anche loro una forte ramazzata.
Il colmo era che questo procedere dell’ispettore, era quello che avrei fatto anche io.
Anche da questo episodio, seppi trarre molti insegnamenti.
Ormai il pagamento del grado era acqua passata.
Ero tenente a tutti gli effetti.
Ero un ufficiale dell’esercito svizzero.
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[1] “Diana” in gergo militare significa “sveglia”.
[2] “Guardia” in gergo militare significa “proteggere persone e opere/oggetti mediante il rafforzamento e la presenza costante di mezzi oppure impedire la fuga di persone” (Terminologia del regolamento di condotta dell’esercito 17).
[3] Il Test di Macolin è un test fisico attitudinale.

“...avevo sviluppato una certa empatia
intorno a me”.
Prima di pagare il grado di tenente, dal 14 al 20 di ottobre del 1990 fui convocato presso la scuola reclute del sostegno 273 per un impiego come aiuto d’esercizio nella settimana di resistenza.
L’entrata in servizio era un paesello non ricordo se nella regione di Berna o Friborgo.
Decisi di entrare in servizio con i mezzi pubblici.
In fin dei conti era poi quello che veniva consigliato.
Puntualmente - altrimenti erano grane - mi presentai al rapporto dal comandante di scuola. Bene. Dopodiché, non mi ricordo assolutamente da chi, mi fu chiesta la patente? Pronto? La mia patente.
Sono venuto in treno quindi la patente è a casa. Clamoroso errore! IL seguito del colloquio si può riassumere come una sonora tirata di orecchie.
Il bello fu che mi vidi appioppare un autista e questo sicuramente ebbe tutti i suoi vantaggi.
Non è questo però che desidero raccontare.
Visto che l’ambientino non era certamente di quelli più cordiali e in quanto mi percepivo piccolo, Piccolo in tutti sensi, in quanto ero solo un tenentino e per giunta ticinese, preferivo trascorrere gran parte del mio tempo con la truppa.
Notte. Postazione di guardia nella foresta. Mi avvicinai. Nessuna reazione. Avanzai con passo felpato, niente. Lo vidi, mi avvicinai, mi inginocchiai ed eccomi ad un palmo di mano.
La guardia è in postazione, il mento sul calcio del fucile.
Dormiva!
Quindi gridai: Booom! Svegliando la povera recluta di soprassalto!
Fortuna che non gli venne un infarto ma il meglio doveva ancora arrivare.
Eravamo ormai nelle fasi finali della settimana, il nemico era sempre più spietato, il sonno latitante.
Come d’abitudine ero presso la truppa e osservavo la situazione, aspettando la fase successiva.
Notammo l’infiltrazione di forze nemiche nel perimetro della compagnia. Nel bosco, nascosto dal buio autunnale era molto vigile il tenente Gelsomino; grande corporatura, occhiali Ray-ban, sguardo secco, guanti neri e un bastone appositamente preparato.
Diceva di essersi preparato. Mi chiedevo in cosa si fosse si fosse preparato e per cosa. Il povero malcapitato nemico, non appena intercettato, veniva infatti raggiunto dal giovane ufficiale e a suoni di manganellate, veniva rinchiuso in un’officina all’interno del perimetro del settore di attesa.
Non solo. L’officina in questione aveva delle fosse, dove i meccanici scendendo potevano controllare le scocche inferiori dei veicoli. Quindi cosa di meglio poteva fare il tenente Gelsomino, se non mettere i poveri malcapitati dentro queste fosse, letteralmente in mutande per poi coprire il tutto con delle griglie?
Dopo una settimana trascorsa con la truppa avevo sviluppato una certa empatia intorno a me e – in qualità di controllore – non avevo opposto resistenza. Sbagliato!
Da quel momento e dopo naturalmente una bella tirata d’orecchie del comandante di scuola al personale insegnante, imparai il significato del diritto internazionale bellico.
Dopo questa breve parentesi alla scuola reclute, prestai servizio nel mese di novembre dello stesso anno presso il reggimento sostegno 10, corso che si tenne al Monte Ceneri (TI), dove potei conoscere il mio comandante di compagnia.
Fu anche il mio primo servizio presso la mia incorporazione.
Era il 19.11.1990.
Dopo appena quattro giorni fui però licenziato medicalmente. Il motivo era semplice: distorsione dei legamenti della caviglia sinistra.
Finii dritto in una stanza dell’ospedale italiano a Lugano, dove, oltre alle piacevoli cure delle infermiere, venni operato.
Dopo essere tornato a casa, rimasi inattivo fino al gennaio 1991. Che seccatura. I mesi comunque trascorrevano.
Come sempre cercavo di tenermi allenato. Volevo arrivare al pagamento del grado in perfetta forma psico-fisica.
Ricordo un altro episodio che risale durante un corso nella caserma di Andermatt (GR), era il 1994. Si trattava di un corso tecnico del reggimento sostegno 10. Dopo l'appello il mio superiore mi disse chiaramente che sarebbe ritornato al lavoro.
Non sapendo cosa fare, anche io mi adeguai e mi presentai in divisa a Manno, presso il mio datore di lavoro. Mi sentivo a disagio, poiché dovevo già sempre confrontarmi con la renitenza alla leva militare. Quella fu la prima e ultima volta che feci un gesto del genere.
Quando assunsi il comando della compagnia, questo fu solo un brutto ricordo.
L’unica esperienza di comando nell’esercito 61 risale al corso di ripetizione 1993.
Allora ero un giovane tenente trasmissione della compagnia stato-maggiore del reggimento sostegno 10.
Come potrei dimenticare quel corso: il mio comandante in tragiche circostanze si tolse la vita.
Il giorno dell’entrata in servizio, alla caserma di Airolo durante le normali attività di mobilitazioni, si avvicinò a me un ufficiale delle trasmissioni e direttamente mi chiese se avessi intenzione di diventare ufficiale del servizio trasmissioni di battaglione.
Risposi: “Niet!”. Ero infatti al primo corso e volevo concentrarmi sulla nuova sfida e semmai una funzione mi fosse interessata, era quella di comandante di compagnia.
La mobilitazione della truppa era uno specchio della guerra fredda; entrata in servizio a staffetta, camuffamento, guardia e ripetizione delle nozioni di base del soldato.
La nostra piazza di mobilitazione era a Biasca (TI). Verso sera trasferimento agli accantonamenti di Varenzo (TI).
La sezione trasmissione era composta da molti elettricisti e avvocati. Tutta brava gente. Esercizi alle armi, scuola di sezione, marce e tanto servizio tecnico.
La prima settimana stava terminando senza problemi.
Un giorno vidi il mio comandante con un fucile in mano e intento a caricarlo su un Puch. Non ci feci molto caso. Mi sorrise. Fu l’ultimo momento che lo vidi.
Dopo lunghe ricerche il suo corpo esanime, fu trovato nelle vicinanze. Fu per tutta la compagnia, un duro colpo.
Il papi, come veniva chiamato se ne era andato per sempre. Dopo l’annuncio ufficiale, mi assentai di qualche metro oltre il perimetro degli accantonamenti e piansi.
Ancora oggi, a distanza di tutti questi anni, quando percorro la A2 in direzione nord non posso che ricordare quanto accadde.
Solo due anni più tardi, assunsi il comando di quella stessa unità.

“Era l’inizio di quello che chiamo coesione
e senso di appartenenza”.
Esercito 95.
Il corso di ripetizione (24.04-19.05.1995) era a ridosso del Gottardo ma dalla parte Urana, precisamente a Seedorf (UR).
La nuova organizzazione di esercito 95 aveva ridotto la compagnia a solo 98 uomini ma solo una sessantina di militi -contro le 300 e oltre di esercito 61 - erano entrati in servizio.
Non posso fare a meno di ricordare il gruppo di Poschiavini.
Al primo incontro, la loro primaria preoccupazione era quella di poter sparare!
Si trattava di un gruppo straordinario: "Comandante, dove è la mitraglia? - Comandante dove è il cachot di granate?".
Di parere contrario fu il povero volatile che si vide stampigliare quale stemma all’entrata del parco veicoli della compagnia. Un gruppo che faceva poche teorie e molti fatti!
Il problema della compagnia era la motivazione. Potete immaginare la missione di una compagnia di stato-maggiore, composta da una sezione trasmissioni, fucilieri, da una sezione stato maggiore di reggimento e da una sezione comando.
La pratica era semplice il reggimento aveva bisogno. Giusto. Rimbocchiamoci le maniche, pensai al momento della preparazione del corso.
A parte l’introduzione della granata a mano 85, non mi era ben chiaro, come primo tenente, cosa diavolo dovessi fare per adempiere al 100% alla quantità di obiettivi fissati.
Credetemi di obiettivi ve ne erano una quantità enorme. Non dimenticando che il 1995 coincideva con il primo approccio seguito alla nuova riforma. Non contando i diversi fine settimana di preparazione, il fatidico giorno arrivò.
Uhaa, sono il comandante!
Lancio della granata d’esercizio 85.
Il soldato M. per motivi ancora ignoti durante il lancio, fece un errore e la copiglia di sicurezza partì al posto della granata e la granata atterrò sui miei piedi.
Non so ancora oggi se sia stata fortuna o prontezza di riflessi ma colto da una rapida reazione, atterrai il malcapitato con uno spintone sulla schiena afferrando la granata d’esercizio e scaraventandola davanti a noi. Esplosione.
Ordinai subito dopo al frastornato soldato M. di ripresentarsi con una nuova granata. Effettuò il lancio. Perfetto.
Esercizio “LEVEL”.
Due giorni di esercizio.
Un giorno prima, venni informato che il comandante di corpo, il comandante di corpo Küchler, voleva visitare la compagnia. Ispezione? Visita? Non mi era chiaro.
Evviva, vedo un comandante di corpo.
Alle ore 11:00 arrivò puntualissimo.
Lui: “mi dica dell’esercizio LEVEL”
Risposi: “accidenti, ho dimenticato il dossier…”
Mi ripresi subito: “Dunque la sezione trasmissione ha il compito di posare una linea di circa dieci chilometri e...”
Lui: “ottimo li ho visti in opera”
Pensai che il 50 % era già ok e quindi continuai: “...e la sezione fucilieri sta esercitando le forme di combattimento base durante una marcia verso e …”
Lui: “COSA? Non è mica una scuola reclute ……”
Discussione terminata.
Durata: otto minuti.
Io rimasi fermo e lui si congedò!
Voleva esonerarmi. Non sono stato esonerato.
Tutti possono commettere degli errori. La conseguenza di alcuni errori sono pesanti e bruciano ancora oggi.
L’obiettivo del corso di ripetizione, nella funzione di comandante, era quello di dare un valore all’unità. Darle quel rispetto che le spettava.
Non so se ci sono riuscito ma era la mia unità e per questo la ricordo con piacere.
Non ero ancora capitano. Per questo motivo dovevo pagare il grado e per tale motivo mi ero fisicamente ben preparato.
Ricordo ancora quando mio fratello mi lasciò a Meride. Con tanto di scarponi militari e un piccolo equipaggiamento salii fino al Monte San Giorgio di corsa, o quasi.
Era inverno e c’era la neve.
Mi sembrava di essere invincibile.
Durante la settimana, in quel periodo ero a San Gallo (SG) per lavoro, 4 sere erano dedicate agli esercizi addominali e al jogging. Fisicamente ero pronto, psicologicamente anche. Era il 19 di febbraio del 1996.
A Berna faceva un freddo terribile. Motivato come non lo ero mai stato in tanti anni mi presentai alla caserma in tenuta B; scarponi, pantaloni e giacca e cravatta.
Ripeto un freddo terribile.
Per tutto il giorno assistetti alle istruzioni di combattimento accanto al comandante della scuola.
Anche l’angolo più remoto del mio corpo gridava: “sento freddo!”
Niente.
Il comandante mi osservava di tanto in tanto come a chiedermi: “Freddo?”.
Resistetti.
L’aspirina alla sera fu una calda amica.
Quel giorno potei vedere il mio ex sergente maggiore al tempo del pagamento grado di caporale.
Più che vederlo potei ascoltare una sequenza di invettive verbali proferite con un tono di voce così alto che lo si sentiva a distanza.
Lui verso il suo superiore: “Capito signor maggiore, non lo faccio”.
Mica male mi dico. Proprio un bel ambientino.
A parte questo spiacevole inizio, il pagamento del grado fu un periodo ricchissimo in esperienza umana.
Dopo una nottata febbricitante, mi presentai al mio istruttore d’unità che da subito stonò e mi dette del tu.
Sarà stato un bene? Mah.
La prima missione affidatami fu quella di preparare i piani di lavoro settimanali, in gergo “Picasso”.
Li consegnai neri, li ricevetti rossi. Rosso come errato. Capii subito e feci una nuova versione.
In quella occasione imparai molto.
Il mio programma prevedeva la ripresa di una compagnia munizioni e carburante dalla quarta settimana fino al termine dell’esercizio di resistenza, ovvero quattordicesima settimana.
Ricordo bene cosa mi disse il mio comandante di scuola:
“Rappazzo, mi aspetto che lei prenda la compagnia e che la rivolti dalla A alla Z”.
Rigurgito. “Wow!”
In aggiunta il mio istruttore d’unità mi disse: “quando ti presenti alla guardia, se riesci insaccala - ovviamente per qualche cosa di giusto e di reale - tutti sapranno che il nuovo comandante è arrivato e che soprattutto non ha intenzione di scherzare”.
Mi presentai a Boltigen (BE), località fuori dal mondo nell’Oberland Bernese. Nevicava, faceva freddo. Insaccai la guardia. Ero arrivato. Inizio in quarta o addirittura in quinta. Tutto secondo programma.
Grazie anche alla mia discreta conoscenza della lingua tedesca, i miei ordini erano brevi e concisi.
Pensavo a voce alta: “Sarò un buon comandante?
Prima del pagamento, in una sorta di replay, mi vidi come caporale, prima e come tenente, dopo. A quell’epoca ero la sintesi del bianco e del nero. Chi non riusciva a seguirmi era finito.
Coloro che non ce la facevano non appartenevano all’élite della sezione. Giusto? Sbagliato? Allora ero un giovane tenente.
Il tempo mi fece riflettere su questo mio comportamento senza mezze misure e come comandante decisi di non appartenere solo a due colori come il bianco e il nero. Capii infatti che i colori hanno diverse tonalità, così come ogni essere umano e il mio compito era quello di portare tutti con me, allo stesso livello.
Decisi dunque di pubblicamente alcune parole semplici ma incisive; “Anche il più debole di voi terminerà questa SR e la compagnia sarà la migliore della scuola”.
Che la compagnia fosse la migliore al termine ebbe poca importanza ma il messaggio fondante era che tutti avrebbero terminato.
Era l’inizio di quello che chiamo coesione e senso di appartenenza.
Quando terminò la settimana di resistenza, il comandante di scuola senza mezzi termini disse quanto più faceva piacere sentire: “Anche se il comandante vi lascia, questa compagnia è e rimane la compagnia Rappazzo”.
Se io ero contento, meno lo fu il mio successore che aveva la scomoda missione di terminare il suo pagamento del grado riprendendo la mia compagnia durante l’ultima settimana.
Mi presentai all’ultimo giorno della scuola reclute. Il soldato B si annunciò così:
“Comandante, all’inizio l’ho proprio disprezzata per la sua disciplina, ma adesso la ringrazio”.
Mi commossi.
Questo risultato fu possibile grazie alla libertà d’azione che la scuola mi aveva lasciato, dandomi la possibilità di creare coesione e responsabilità di gruppo.
L’anno seguente iniziò la preparazione per il secondo corso di ripetizione (08.09-03.10.1997) questa volta con il grado di capitano.
Oltre al grado di capitano, il primo luglio del 1997 iniziai il corso come ufficiale professionista.
Mi presentai ad Airolo per il sopraluogo, le autorità competenti mi proposero uno stazionamento umido e puzzolente!
Avevo due possibilità: accettare o rimboccarmi le maniche e cercare un’altra soluzione.
Optai per la seconda e rifiutai.
Mi impegnai a cercare una soluzione, dove la truppa poteva essere degnamente acquartierata.
Un altro problema erano gli effettivi. Sempre striminziti. Al limite. Anche questo non mi andava bene e decisi di telefonare all’ufficio competente proponendo di accogliere tutti coloro che avevano rinviato un corso.
L’effetto fu più che positivo. La compagnia entrò in servizio con il 100% degli effettivi.
Mi trovai dunque la stessa compagnia, chiaramente rinforzata, con il problema della missione ma almeno l’acquartieramento era stato risolto.
Questa volta non fu niente di meno che una casa-vacanza.
Decisi in aggiunta di bivaccare durante alcuni giorni l’intera compagnia a Carorescio (TI) per gli esercizi di tiro.
I commenti che questa decisione provocò furono i più disparati: “cosa diavolo vai a fare un bivacco con una compagnia di stato-maggiore?” - “ma sei matto?”.
Il gruppo di Poschiavini fu contento, meno i soldati trasmissione. Alla fine la compagnia effettuò il bivacco.
Per la cronaca il solito comandante di corpo inserì la sua solita visita-ispezione! E ciò proprio sulla piazza di tiro.
Questa volta volevo farmi trovare pronto. Il comandante di corpo però non si presentò. Fortuna. Così non si accorse che l’istruzione che avevo ordinato (introduzione NGST) aveva un anno di anticipo.
Era l’anno 1997. Fine del corso.
Pronto per il mio terzo corso di ripetizione (17.05-11.06.1999). Questa volta con una nuova unità: una compagnia munizione.
Mancava un furiere e per tale motivo telefonai insistentemente, all’ufficio competente. Chiedendo a voce dura: “Datemi anche uno svizzero tedesco”.
Ricevetti un furiere ed era uno Svizzero tedesco.
Ricordo con piacere che al termine del corso quadri, avevo la ferma intenzione di essere pronto al 100 % con gli accantonamenti già dall’entrata in servizio.
Quasi per scherzo dissi ai quadri superiori della mia intenzione di entrare in servizio già a partire dalla domenica.
Risultato? Alla sera eravamo circa una decina impegnati nella preparazione.
Questa volta la missione fu più chiara. Così di buona lena misi in piedi un esercizio tecnico della durata di alcuni giorni, bivacco compreso!
A questa decisione non mancarono i soliti commenti, col tempo diventati piacevoli, sull’utilità di effettuare un bivacco. Non bisognava dimenticare il tiro di combattimento.
Per problemi di tempo niente bivacco ma tiro notturno. Quello non poteva certo mancare!
Nufenen. Ripari zero e pioggia a catinelle. Fortunatamente, ebbi il buon senso di essere presente durante la fase più piovosa e oscura della giornata.
La presenza del comandante, me ne accorsi, fu un toccasana.
Un buon corso. Una buona compagnia.
Si levò una voce dal gruppo: “Comandante, la prima settimana è stata peggio della scuola reclute, lo sa?”
Risposi: “Poco male!”.
In realtà non avemmo nessun problema rilevante durante il corso. Casi disciplinari: zero.
L’inizio fu dunque con il botto! A parte il furiere svizzero tedesco che non aveva alcuna conoscenza della nostra lingua. Di certo non fu un valido aiuto.
L’anno seguente fu la volta del corso tecnico tattico.
Il comandante di reggimento mi chiese se potevo condurre la compagnia di servizio per il corso tecnico-tattico.
Domanda retorica pensai. Ne apprezzai ugualmente la forma e accettai. Queste le sue parole: “Capitano è tutto pronto”, gli uomini sono già informati, non c’è molto da fare!”.
Purtroppo per motivi non da imputare al comandante di reggimento, l’unica cosa sicura fu la data del corso tecnico-tattico. Tutto il resto era come una notte buia.
Mancavano alcune settimane. Pensai tra me: “Per la chiamata in servizio siamo in ritardo e anche se posso ordinare l’entrata in servizio, dovrò poi fare i conti con problemi di motivazione”.
Proposi di stralciare la lista ufficiale e di affidarmi alla mia compagnia e all’aiuto della scuola reclute del sostegno.
Il comandante di reggimento accettò.
Iniziai personalmente a prendere contatto con il possibile personale e intrapresi il corso tecnico-tattico. Il 31 dicembre 2000 fu anche il mio ultimo anno di comandao di una compagnia.
Un periodo eccezionale che ricorderò per tutta la vita.

“...la verità sta sempre nel mezzo”
Ho sempre creduto che la via del comando fosse la più consona al mio carattere e al mio modo di essere, intendendo il comando come disponibilità ad accettare le responsabilità e una mole di lavoro maggiore.
Verso la fine del millennio, seguivo la formazione per diventare ufficiale professionista.
Volendo ampliare i miei orizzonti, decisi di scrivere una richiesta per assumere un ulteriore comando, questa volta presso la fanteria territoriale nella divisione territoriale 9.
In seguito a questa, il comandante della divisione territoriale di quel tempo, il divisionario Christen mi propose un incontro – al ristorante Burestadl a Buochs (NW) – per ascoltare le mie ragioni.
Alcune settimane dopo ricevetti una lettera, nella quale mi si comunicava una mia nuova incorporazione presso la fanteria territoriale. Non come comandante di compagnia, bensì come comandante sostituto del battaglione fanteria montagna 296.
Era una sorpresa graditissima, di cui mi sentivo orgoglioso.
Di questa formazione mi interessava soprattutto la tematica legata alla protezione delle opere, la gestione di strutture per esuli e la collaborazione fra il militare e il civile.
Durante il periodo della mia incorporazione presso la fanteria 2000-2003, ebbi la fortuna di avere due comandanti di battaglione: il tenente colonnello di stato maggiore generale Daniele Moor e il tenente colonnello di stato maggiore generale Tiziano Sudaro.
Il primo era un granatiere mentre il secondo un fante.
Il primo molto deciso e diretto nella gestione dello stato maggiore, mentre il secondo deciso ma meno presente nella gestione dello stato-maggiore.
Due stili differenti che comunque ho saputo apprezzare e che mi hanno permesso di crescere in questa funzione.
Avevo trovato una truppa che mi piaceva. Mi sentivo a mio agio e sognavo un giorno di diventare comandante di battaglione.
Di questo battaglione.
Sbagliato! Venne l’esercito XXI e tutte le formazioni territoriali vennero disciolte.
Come sostituto avevo la responsabilità di tenermi sempre pronto a sostituire il mio comandante in ogni momento e per qualsiasi cosa.
A questo proposito sia Daniele ma anche Tiziano m’informavano regolarmente sugli affari correnti.
Citerò due episodi.
La sera prima del rapporto di supporto per il battaglione (URB), Tiziano m’informò che avrei dovuto partecipare al rapporto, poiché era impossibilitato a partecipare.
Trascorsi una lunga notte.
Mi trovavo a Berna per lavoro, lavoravo fino a tardi e il rapporto era al Monte Ceneri. Misi insieme alcune informazioni che avrebbero dovuto servire per preparare il successivo corso di ripetizione. Il rapporto era condotto dal colonnello Valli.
Quando chiesi al colonnello il motivo della mia presenza e sul termine breve, la sua pronta risposta fu deprimente: “Rappazzo, lei è istruttore!”.
Parafrasando si potrebbe sintetizzare così la sua risposta: “Non me ne frega niente!”.
Durante la presentazione del battaglione, misi delle lastrine dell’anno precedente e nessuno se ne accorse.
Comunque il rapporto fu produttivo.
Il secondo evento, fu la dissoluzione del battaglione fanteria montagna 296 e la conseguente dissoluzione della divisione territoriale 9.
La cerimonia di “ADDIO” era prevista per il 14.11.2003 al KKL di Lucerna. Alcuni giorni prima, venni informato dell’impossibilità di presenza di Tiziano e quindi avrei dovuto in qualità di sostituto, prendere il suo posto.
Ebbi così l’onore e il dispiacere di consegnare, davanti a un pubblico numerosissimo, la bandiera del battaglione nelle mani dell’autorità politica, in quel caso al consigliere di Stato Luigi Pedrazzini.
Dal 2004 al 2006 non ebbi più un’incorporazione.
Probabilmente ciò fu dovuto allo stage negli Stati Uniti, alla dissoluzione della divisione territoriale, e mettiamoci pure alla parentesi del corso stato maggiore generale.
Fra la prima esperienza di comandante di battaglione sostituto e la seconda in un altro battaglione ci fu, appunto, la difficile esperienza del corso stato maggiore generale, dove al termine del primo corso, che non ero riuscito a superare, avevo perso completamente la bussola e ogni motivazione. Non stavo in questa condizione per la sostanza, ovvero per le debolezze di contenuto del corso, bensì per la forma e soprattutto per il modo in cui ero stato trattato e la completa non professionalità di quello che accadde dopo.
Grazie soprattutto alla mia futura consorte, potei contare su una stabilità interiore.
Professionalmente, il fatto di poter contare su un ambiente di lavoro gradevole, mi permise di non ledere la qualità delle mie prestazioni.
Della milizia però non volevo più sentir parlare.
Come ogni giorno ero in ufficio e verso la fine del 2006, il maggiore stato maggiore, generale Agustoni Matteo, amico e collega di lunga data, mi chiamò.
Aveva una proposta: “Ale ti voglio come mio sostituto al battaglione mobile logistico 22”.
Risposi: “Con tutto il rispetto che ho per te ... no! Ma grazie per la proposta”. Riappesi.
Un paio di giorni dopo, di nuovo la stessa proposta.
Matteo mi chiese se il mio rifiuto, non fosse dettato dal fatto che un tempo io ero il suo comandante di compagnia.
Questa poteva sicuramente essere una motivazione ma considerata la grande stima verso Matteo non era sicuramente questa la motivazione.
Semplicemente non volevo più impegnarmi per un sistema al quale in quel momento non credevo più, come avrei dovuto credere.
Oppure ancor più semplicemente non credevo più in me stesso.
Alla prima, seguirono altre telefonate e alla fine decisi di accettare l’offerta.
Massimo due anni come sostituto e poi o un battaglione o termine della mia carriera di milizia.
Le motivazioni che mi spinsero ad accettare furono comunque dettate dalla grande stima e considerazione per Matteo.
In aggiunta, avevo anche l'appoggio della mia formazione d'applicazione che mi avrebbe permesso di accedere anche al lavoro ad una funzione superiore.
Lo stato maggiore del battaglione logistico 22 non godeva a livello di brigata di una grande stima. Il feed-back era unanime; ufficiali non adatti che non fanno niente. Una bella situazione!
Però la verità sta sempre nel mezzo. Così con grande motivazione mi misi al lavoro per organizzare lo stato maggiore con l’obiettivo di servire il mio comandante e amico Matteo.
Con grande perseveranza oltre me, il comandante di battaglione era riuscito a completare l’equipe con il maggiore Graziano Regazzoni e l’ufficiale specialista Stephane Gronauer.
Caso vuole che queste due persone, di grande competenza erano già mie vecchie conoscenze in quanto entrambi come me erano attivi nel movimento scout della nostra regione.
Il primo contatto con il nuovo stato maggiore romando fu particolarmente forte, in quanto sia io che il comandante avevamo chiaramente enunciato i nostri obiettivi.
Forse a parte una normale diffidenza iniziale, ben presto ci accorgemmo che non era la voglia o la capacità che mancava a queste persone, bensì qualcuno che li conducesse e li appoggiasse nell’espletamento delle proprie funzioni.
Al termine del mio servizio presso il battaglione logistico 22 mi dispiacque molto lasciarlo. Era un buon team.
La data per il corso quadri e il servizio di truppa si avvicinava. Il corso era previsto dal 6 di novembre al 30 di novembre del 2007.
Una settimana prima del corso quadri, accadde un episodio che modificò – mi piace pensarlo – il corso della mia carriera di milizia.
Dopo un paio di squilli di telefono risposi.
Dall’altro capo del filo era Matteo, il mio comandante che mi disse: “Ale sei seduto? ...”
Fece seguito un lungo silenzio.
Per poi continuare: “Ale, mi sono rotto il ginocchio e non potrò essere presente al corso”.
“Mi sedetti!” nel vero senso della parola.
Risposi: “Ok! ma stai bene?”.
Mi dispiacque molto per la sua condizione.
Sapevo che Matteo era molto contento e pronto per condurre il suo primo corso da comandante. Era anche vero che mi si presentava una possibilità per finalmente mostrare che avevo anche io delle capacità.
Non avevo paura, poiché avevamo preparato il corso nei minimi dettagli e avevo il supporto dello stato maggiore e soprattutto dei più stretti collaboratori.
Così il comandante della brigata logistica 1, il brigadiere Daniel Rubaty, durante il corso quadri, mi trasmise il comando in rappresentanza del battaglione mobile logistico 22.
Una sfida che avrei condotto anche tenendo conto della volontà del legittimo comandante.
Unica divergenza era lo stile di condotta; ogni capo ha una ovvia differenza di stile ma questo era secondario agli obiettivi di riuscita.
Fu un corso molto impegnativo.
Tutto d’un tratto le attività che erano di competenza del comandante erano le mie. Così come pure dovetti riorganizzare lo stato-maggiore di battaglione.
Attività come le cerimonie della bandiera, i discorsi, l’istruzione dei quadri, gli esercizi di formazione erano però ben poca cosa rispetto alla problematica della truppa o meglio della compagnia: la compagnia di stato maggiore del battaglione.
Questa unità tenne ferma la mia attenzione per tutta la durata del corso.

“Si chiuse un sipario.
Piansi”.
All’indomani dell’inizio della mia carriera professionale in qualità di aspirante ufficiale professionista, mi ero convinto della necessità di provare a diventare un ufficiale di stato maggiore generale.
L’elite dell’esercito: uomini e donne al disopra della media.
Ufficiali che grazie alle loro conoscenze, sono in grado di affrontare ogni problema e nelle condizioni più disperate.
Unermüdliche Arbeit è il loro motto che significa: “lavoro instancabile”.
Con tutto il rispetto di quelle persone che vestono nel loro DNA le tanto decantate aspettative e che sono veramente al di sopra della media, la realtà è un po’ diversa.
La maggior parte è e resta nella media. Niente più che buoni ufficiali.
Questa è la mia storia, forse la più triste della mia carriera. Come si suol dire: passai dalle stelle alle stalle.
Di questa esperienza che mi ha fatto divenire più forte, rimane ancora oggi una cicatrice che ben difficilmente potrà rimarginarsi in modo completo.
Nonostante la batosta, la sconfitta, la delusione, ho sempre mantenuto un atteggiamento positivo e di rispetto per tale funzione e quando posso, incoraggio ad intraprendere questa via.
Ma andiamo con ordine.
Era l’anno 1997, era già il mio terzo anno di comando e avevo da alcuni mesi intrapreso la strada per divenire istruttore professionista. Parallelamente e probabilmente un po’ troppo timidamente – avevo deciso di candidarmi come SMG.
Iniziò la saga. Iniziò la girandola. Corso di ripetizione.
Un giorno durante la fine della giornata, dove la compagnia stava rientrando, stavo effettuavo il servizio di parco alla mia arma personale, quando la guardia mi annunciava l’arrivo del divisionario Vicari.
Wow un divisionario.
Dopo l’annuncio e quasi in contemporanea, mi rimproverava il fatto che stavo pulendo il mio fucile.
Risposta: il fucile è il mio, mi prendo il tempo e quindi lo pulisco io (a volte me lo facevo pulire …).
Dopodiché ispezione agli accantonamenti: unica osservazione, dato che tutto il resto era immacolato, fu “il come mai non avevo fatto aprire le finestre delle camere a sufficienza”.
A questa domanda non avevo risposte.
Beh, non avendo trovato niente di rilevante, mi comunicavano che sarei stato convocato per l’iter SMG.
Questa era la mia ispezione?
Rimasi perplesso. E anche molto contento
Questa ispezione da fuori programma, era il frutto di alcune pressioni del mio comandante di reggimento.
Pensai che avendo imboccato la strada della professione militare, mi si voleva dare un’opportunità. Così senza troppa gloria, durante i giorni 3 e 4 novembre del 1997, presi parte alle giornate di preparazione presso la divisione montagna 9.
Fu in quella occasione che conobbi il divisionario Mudry.
Ancora oggi lo ricordo mentre asseriva: “bene, adesso siete ufficiali di SM e dovete intrattenere la cp (compagnia) xysu con un tema di vostra scelta”.
Così io scelsi un tema partendo dall’acronimo ISMO.
Terrorismo, menefreghismo, altruismo, fondamentalismo erano gli argomenti: io scelsi il fondamentalismo.
Dato che non c’erano altre regole, decisi di disegnare un lucido che avrei utilizzato in un ipotetico locale o portico, situato su una piazza di tiro.
Uhi. Prima ancora di cominciare, mi veniva già posta una domanda che come mi venne posta sembrava mi considerasse una persona non utilizzabile: “Senta signor capitano, lei è su una piazza di tiro”.
Risposta: “Signor divisionario, sì sono su una piazza di tiro, ma in un locale dove posso utilizzare un retro proiettore, ma se vuole posso…”
Mi rispose: “No, vada avanti”.
Pensai tra me: “Si avanti verso il burrone”.
Li capii che anche io avevo dei limiti; il primo era quello di mettermi in avanti, di espormi, e il secondo quello di giocare un ruolo che non era il mio.
Questi erano i miei veri limiti.
Oggi davanti una domanda come quella di allora, ci avrei fatto un sorrisino e avrei risposto picche.
Comunque per il rotto della cuffia - forse tramite qualche santino vinto alla lotteria - venni convocato per le prove scritte e per le prove di idoneità presso il comando corpo di montagna 3.
Per meglio prepararmi alle prove scritte, avevo concordato con un altro candidato delle serate nelle quali avremmo studiato insieme.
Entrambi avevamo delle buone basi di studio. Tuttavia, malgrado avessi compilato per tempo tutte le domande, ricevetti – al contrario del mio commilitone - risposta negativa.
Fui comunque molto contento per lui.
Sembrava tutto finito. Ma non era così.
Ma andiamo avanti, facciamo un salto in avanti.
Fu un inferno.
Si. Ero riuscito ad accedere ai corsi SMG.
Avevo fatto il salto.
Ero felicissimo, pieno di energia e di volontà e tuttavia ancora una volta, rimanevo con una briciola in mano.
Andiamo con ordine.
Durante il 2004, stavo svolgendo alcuni lavori di preparazione in ufficio – a quell’epoca ero impiegato come capo-classe alla scuola ufficiali della logistica – quando disattentamente risposi ad una chiamata in entrata.
Dall’alta parte del telefono il colonnello – il cui nome mi sfugge mi disse: “Signor maggiore sono il colonnello lei è stato previsto per i corsi SMG del 2005”.
Letteralmente gli chiesi se mi stesse prendendo in giro, e gli facevo notare che era anche uno scherzo di pessimo gusto.
Il colonnello parlava sul serio: “No, no!”
Chiesi: “E devo rifare il test attitudinale?”.
Rispose: “No, il test è già stato superato nel 1998”.
Mi venne da dire: “Ah, interessante, molto interessante”.
Così mi preparai. Fu una preparazione meticolosa.
Arrivò il fatidico giorno.
Test di entrata riuscito, con alcune lacune, ma riuscito.
Avevo un grande rispetto e anche una grande paura della lingua.
Alcune settimane prima dell’inizio, ricevetti una telefonata che mi chiedeva se volevo essere in una classe tedesca, dove il capo-classe era un ticinese. Accettai. Forse non avrei dovuto.
Diciamolo chiaramente. Non ero forte in tattica e avevo lacune nella lingua.
Il mio setting mentale - estremamente forte - era convinto che potevo imparare. Ero convinto che potevo porre domande, capire e applicare. Mi sbagliavo. Dovevo solo produrre e convincere.
Poi e questo, purtroppo era il punto più dolente, non mi ero potuto preparare sul contenuto dei diversi capitoli.
Tutta la mia preparazione consisteva nel riuscire il test di entrata, mentre per il resto non avevo avuto il tempo necessario.
Chiaramente divenni la sibla per eccellenza.
Ero istruttore, debole e soprattutto sacrificabile.
Mi misero in provvisorio.
Quello che segue è sono solo alcuni esempi del teatrino che si sviluppò durante le quattro settimane di corso.
Si, perché malgrado tutto resistetti tutto il corso, con la convinzione che avrei potuto migliorare e dimostrare che avrei potuto divenire un buon ufficiale SMG.
Un giorno del corso. La prima analisi del terreno. Preparazione delle plastiche. Ore di lavoro; preparazione delle sei plastiche, rappresentanti i diversi fattori di analisi.
Il bello arrivò quando ci dissero: “Signori, il lavoro non è sufficiente” – fino a questo punto mi andava bene – “per questo lavoro dovete utilizzare il pennarello F (F sta per “fine”).
Dissi tra me e me: “e che cazzo...” e continuai il pensiero a voce alta: “Ma scusa - davo del tu al capo-gruppo- ma non avresti potuto dircelo prima, che avremmo evitato di sprecare...”
Uhi, mi beccai una ramazzata.
Altro esercizio. Verso la fine della pianificazione dell’azione. Dovevamo consegnare il pacchetto ordine entro le 22:00. Alle 21:58 inviai il pacchetto ordine, spensi il computer a andai a letto.
Il giorno dopo: “Rappazzo, insufficiente”.
Dico: “vediamo dove devo migliorare …” – “cosa? Non ho consegnato il pacchetto ordini per tempo?”.
“Eh no, qua si sta esagerando” continuo a pensare.
Corsi al mio computer, cercai la data e l’ora di invio, stampai la ricevuta e mi precipitai da capo-gruppo per esporre la mia versione.
Quello che accadde non fu certo una situazione edificabile.
Nota da redazione. Ramanzina reloaded.
Era il 30.11.2005. Mi fu comunicato quanto segue:
“Signor Maggiore, le prestazioni fornite durante le prime due settimane del C SMG I sono appena sufficienti. Qualora le stesse non dovessero migliorare in modo considerevole, concluderà il C SMG I con la nota insufficiente e di conseguenza non potrà essere chiamato in servizio per assolvere il C SMG II. Mi aspetto che durante l’imminente fine settimana ne approfitti per approfondire le sue conoscenze e colmare con ciò le sue lacune. Le comunico quindi che è stato messo in “provvisorio”.
Giungemmo all’esercizio finale.
Infrastruttura da qualche parte nella Svizzera.
Effettuammo la presentazione al comandante di scuola, il Brigadiere Fantoni.
La mia nota fu molto buona, con tanto di commenti positivi per la prestazione. E ciò, divenne un bene al cospetto del generalissimo Divisionario Zwygart.
Sempre la stessa notte, facemmo la presentazione delle possibilità proprie. Entrai nella sala. Vidi il divisionario. Non mi degnò di un saluto. Non mi parlò neanche per un secondo.
Mi presentai, mi guardò, non disse niente, mi annunciò partente.
Non ebbi il tempo per pensare, la presentazione successiva era alle porte. Per tempo dunque terminai il mio pacchetto d’ordine e dato che avevo un po’ di tempo, rilegai i documenti con una copertina e una plastica supplementare.
Un bel dossier. Poco dopo il capo-classe mi informava che non aveva ricevuto il mio pacchetto d’ordine.
Volevo esplodere. Non esplosi, risi.
Malgrado la mia volontà di migliorare e di riuscire, fallii completamente.
La terza settima era in programma una settimana di VIKING 05, ovvero un esercizio con partecipanti a livello internazionale.
Non ricevetti mai, e dico mai la possibilità di migliorarmi.
Svolsi la funzione di S4 di capo logistica in un battaglione.
Nessuna critica.
Era il 12 dicembre 2005 e ricevevo questa comunicazione:
“Signor Maggiore. Le prestazioni durante la terza settimana, malgrado un sensibile miglioramento, non hanno raggiunto ancora il livello da noi atteso”.
Ma quale livello? Eravamo nell’esercizio VIKING e non mi venne data neanche la possibilità di mettermi alla prova!
Nello stesso giorno - mi sentivo proprio preso per i fondelli - ricevetti altra comunicazione che informava del licenziamento dal corso di stato maggiore del Signor Maggiore Alessandro Rappazzo:
“Egregio Signor comandante di corpo Keckeis, Le devo purtroppo comunicare che le prestazioni del maggiore Alessandro Rappazzo quale candidato ufficiale di stato maggiore non sono sufficienti. A causa delle prestazioni insufficienti ho deciso che non supererà il C SMG I/05. Durante l’esame finale il candidato è stato su mio esplicito desiderio osservato in modo attento e per lungo tempo (tradotto: un paio di minuti, vi ricordate la breve presentazione?) anche dal divisionario Zwygart (cdt ISQE). Il risultato è stato purtroppo insufficiente (Già da molto buono a buona la presentazione presso lo stesso comandante e il mio dossier non consegnato?). La volontà del maggiore Rappazzo di voler diventare ufficiale di stato maggiore generale è particolarmente manifesta per tale motivo, qualora il candidato presentasse la richiesta per essere ammesso al C SMG I nell’anno 2006, appoggerò senz’altro tale domanda. Firmato Brigadiere Marcel Fantoni”.
Si chiuse un sipario. Piansi.
Ero a terra, ma nelle settimane successive, mi convinsi malgrado l’opposizione di alcuni superiori, di riprovarci. Sapevo che potevo riuscire.
Quello che non sapevo era che si stava delineando il prossimo atto di questo assurdo teatrino.
23.01.2006 Data da memorizzare.
Inviai la prima lettera da trascrivere.
E le successive:
Febbraio 2006 nessuna risposta
Marzo2006nessuna risposta
Aprile 2006 nessuna risposta
Maggio 2006 nessuna risposta
Giugno 2006 nessuna risposta
Luglio 2006...ora basta dovevo fare qualche cosa!
Fu così che il 28 luglio 2006 portai direttamente e senza passare dalla via di servizio la mia richiesta al Comandante di corpo C. Keckeis, Capo dell’Esercito, Bundeshaus Ost, 3003 Bern.
Nel contenuto feci subito riferimento alla lettera del 23 gennaio 2006, C SMG I/06:
Egregio Signor comandante di corpo Keckeis... e a seguire lo snocciolamento delle mie argomentazioni!
Effettivamente Keckeis, diede il suo assenso per – credo – reintegrarmi, ma per motivi ormai divenuti futili, qualcuno riuscì a bloccare nuovamente la mia strada.
Per molto tempo, non ho più rivisto il mio capo-classe, non lo cercavo sapevo che nel frattempo era diventato comandante di scuola nella mia formazione d'applicazione.
Così non di rado sentivo gli echi positivi. Faceva un buon lavoro. Per anni non ci siamo più visti e sentiti.
Dentro di me, stimavo il suo lavoro. Poi ci siamo rincontrati, abbiamo iniziato a parlare, senza mai toccare il nocciolo del nostro passato.
Credo, nel 2017 o 2018, in occasione di un fortuito incontro, presi l'occasione per ripercorrere brevemente quanto successo e ammettere come mi ero sentito.
Quello che mi importava più di ogni altra cosa era comunicargli chiaramente che la stima per la persona, era più forte del ricordo del nostro non proprio fortunato incontro.
Mi sentii sollevato. Credo anche lui.

“...ogni cambiamento, è un nuovo inizio.
Una nuova sfida”
Un giorno qualunque. Il telefono squillava. Il comandante di brigata, il brigadiere Stoller chiedeva di parlarmi.
Pensai: “Cosa ho fatto di male?”.
Ero inquieto.
Mi chiedevo: “se non ho fatto nulla di male e il brigadiere mi vuole parlare … forse è per darmi il comando di un battaglione? Per un comando?”
Giorno del colloquio.
Sintesi: “vuole un battaglione? Si! Bene, dal 1.1.2009 avrà il comando del battaglione ospedale 5 - lingua tedesca”.
Gridai dentro me: “Uhaa! Bello il battaglione ospe… ché? Ospedale?”.
Ancora oggi ritengo sia stata la cosa più bella che mi potesse capitare.
Non era finita. Alcune settimane dopo, ero a pranzo alla Coop di Friborgo, quando squillò il telefono.
Lo riconobbi subito. Esclamai: “Stoller”!
Domanda: “le interesserebbe il battaglione ospedale 66 di lingua francese?”.
Risposta: in millisecondi, NOOOOOO!
Pensai e dissi a me stesso: Ale, pensa, respira, impugna il telefono e parla: “brigadiere, grazie mille per la possibilità, ma preferisco un battaglione di lingua tedesca”.
Dall’altra parte mi fu chiesto: “E perché?”.
Risposi: “Probabilmente mi trovo più a mio agio a lavorare con il metodo tedesco”.
Ai romandi che stanno leggendo il testo, dico: “non prendetevela, lavoro molto volentieri anche con voi ma ho dovuto scegliere e ho scelto il battaglione ospedale 5”.
Dopo diverse battute d’arresto, ecco finalmente una buona notizia.
Dopo il 2005 ero letteralmente per terra ma seppi rialzarmi, rimboccarmi le maniche ed ecco il risultato.
Non fu importante per me in quel momento il comandare e avere potere. No, importante fu la possibilità di gestire, insieme al mio futuro stato-maggiore, un battaglione, raggiungere degli obiettivi e dare il mio contributo.
Mi sentivo pronto, anzi prontissimo, anche se conscio che avevo ancora molto da imparare.
Le mie due esperienze come comandante sostituto, e aver già avuto la fortuna di condurre un battaglione, data l’assenza del vero comandante, furono come dei piccoli investimenti.
Sapevo cosa volevo, sapevo cosa non volevo.
Conoscevo i miei punti di forza e i miei punti deboli.
Ma che cosa è un battaglione ospedale?
Con le parole di Henry Ford iniziai il mio primo anno di comando per modificarlo poi anno dopo anno: “Mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme è un successo”.
Non fu proprio così ma il motto mi accompagnò per tutto il periodo di comando. Ben presto mi resi conto che ogni anno, ad ogni cambiamento, è un nuovo inizio. Una nuova sfida.
Altro motivo che mi riempiva di orgoglio era la consegna della mia personale medaglia ai soldati al termine di ogni corso. Per quattro anni di seguito consegnai dalle due alle tre medaglie a coloro che ritenevo meritevoli.
Per quattro anni di seguito vissi questa l’emozione. Incrociando, seppur per un breve istante il loro sguardo, dissi loro semplicemente: Grazie!
Sto scrivendo queste righe nel 2015, esattamente tre anni dopo aver lasciato il comando. I ricordi sono ancora vivi e in qualche modo sento ancor oggi delle emozioni.
Quattro corsi di ripetizione, quattro corsi tattici, tre esercizi con la truppa, una giornata delle porte aperte, una giornata con i parenti e un corso di ripetizione di impiego a favore degli handicappati.
Ricevetti uno stato maggiore completo e lasciai uno stato maggiore completo. Anno dopo anno riuscii a invogliare a continuare la carriera militare a molti ufficiali.
Come stato-maggiore, molti non erano brillanti – e forse non lo ero nemmeno io - ma abbiamo saputo comunque lavorare insieme.
Ho avuto la fortuna così di disporre di uno stato maggiore altamente motivato e coeso.
Fra le tante luci, ci furono sicuramente anche diverse ombre. Non tutti mi hanno amato. Forse alcuni mi hanno persino odiato. Mi dispiace. Purtroppo fare contenti tutti è una di quelle cose da classificare sotto la parola utopia. Bisognava farsene una ragione.
Il mio successo fu dovuto sicuramente all’esperienza che portavo già al primo corso di ripetizione, dalle persone che ho incontrato sul mio cammino e forse anche da un pizzico di fortuna.
Ma che cosa è questo ospedale 5?
Durante il mio primo corso di allenamento, durante l’esercizio di stato-maggiore, feci due cose; misi il mio sostituto che era di formazione delle truppe sanitarie vicino a me e diedi l’incarico al mio ufficiale della prontezza - già comandante di compagnia, che poi divenne il mio S3 (capo operazioni), nonché uomo di fiducia - di rappresentarmi gli standard, sotto forma di matrice di sincronizzazione, del battaglione.
Così nei due giorni a seguire imparai tantissimo.
Dopo il corso di allenamento, divorai alcuni manuali e lessi gran parte della documentazione del mio predecessore.
Più tardi, ascoltai e capii da subito che per avere successo, avrei dovuto: da una parte sapere quello che volevo – avere una chiara filosofia – e dall’altra avrei dovuto fidarmi, dare fiducia e costruire un team affiatato.
Mettersi insieme è un inizio, rimanere insieme è un progresso, lavorare insieme è un successo.
C’è di più.
Già durante del primo corso, avevo già in chiaro che se avessi voluto aumentare il livello, dovevo agire invece di reagire.
Per questo motivo per tutti gli anni del mio comando, durante il corso di ripetizione, gettai già le basi per il corso successivo, dove al termine del corso, ogni ufficiale poteva già visionare la pianificazione dell’anno successivo.
Dopo aver analizzato la situazione del personale, avevo già in chiaro quali erano i punti laddove dovevo intervenire per garantire il personale necessario.
Si dice che l’allenamento costante è la base per il successo; per questo motivo, tutte le attività di condotta erano la base del nostro agire; così il corso di ripetizione era come una "pianificazione dell'azione" e il corso stesso era un "monitoraggio della situazione".
Non aspettavamo l’allenamento annuale, o l’esercizio della brigata per allenarci ai lavori di stato-maggiore.
Prima di ogni esercizio, dove venivamo esercitati dalla brigata, avevo riservato del tempo per l’esercitazione in formazione. Così, ci allenavamo costantemente. Crederci o non crederci, abbiamo avuto successo.
Quindi il filo rosso era la fiducia e la capacità di delegare. Il mio compito principale di comandante era quello di avere sempre un piede più in avanti, quello di formare il personale e di ricercare i talenti per l’avanzamento.
I quadri e la truppa era la mia vera prima mansione.
Ogni mattina il mio sostituto si occupava dello stato maggiore (rapporto stato-maggiore), mentre al pomeriggio lo stato maggiore ridotto, mi informava sulle tematiche da me stabilite nel rapporto di situazione.
Durante il giorno, parlavo con il mio sostituto dove gli passavo gli incarichi che avrebbe dovuto eseguire per mio conto.
Questo era lo stato finale, dove lo stato maggiore era rodato, gli standard erano conosciuti.
All’inizio non era così.
È ancora vivo il ricordo del primo corso quadri nel 2009, dove passammo quasi una settimana a decidere cosa fosse veramente necessario da avere per la nostra sala di condotta.
All’inizio presenziavo al rapporto di stato-maggiore, ne ero assorbito. Dovevo però cambiare. Condurre tramite obiettivi, comandare, controllare, correggere.
Tutto funzionò in maniera eccellente.
Come già accennato precedentemente, un pericolo della condotta era quello di iniziare ogni anno da capo. Questo non lo volevo. Già dal primo anno quindi, durante il corso ognuno era tenuto – anche ordinato – di essere attivo nel trovare i punti di forza e i punti da migliorare.
Un ufficiale del mio stato maggiore si incaricava poi di integrare i punti e i commenti in un formulario che mi veniva poi presentato.
Per i punti che toccavano solo i settori di competenza di base, lasciavo al capo settore il dovere di implementare mentre per quanto concerneva il globale, previa discussione, decidevo personalmente.
Per tutte le proposte dove occorreva passare per il comando superiore, spettava a me il compito di presentarle – e non senza successo – al mio comandante di brigata. Questa lista veniva ripresa ad ogni incontro e non finiva nel dimenticatoio o nelle pseudo attività.
Così in quattro anni di comando, ho partii dalla griglia di partenza con un bagaglio di esperienza già di un buon livello.
Avendo alla base tale programmazione utilizzai il tempo per costruire ed è per questo sono contrario a un periodo di tre anni di solo comando.
A volte, purtroppo, il comando viene assunto sempre da gente capace ma con l’intenzione di sbrigare al più presto la funzione per poter salire nella gerarchia militare.
Con solo tre anni di comando si può riassumere il periodo con tre verbi: “venni” (imparo),“vidi” (faccio) e “vado” (mi preparo per altre funzioni).
Al termine del mio periodo di comando, in occasione dell’ultima data d’ordine della brigata, un mio commilitone anche lui al termine, disse: “dopo tre anni ho visto e so cosa vuol dire”.
Durante la mia relazione, dissi: “dopo quattro anni, ora mi ritengo pronto, ma devo imparare ancora tante cose”.
Trascorsi quattro anni, dove ogni giorno e notte, ero conscio alla mia funzione. Vissi la mia funzione.
Grazie alla pianificazione e all’aiuto dello stato-maggiore, anche fuori servizio superai momenti delicati.
Anche con uno stato-maggiore performante, con comandanti di compagnia validi, a volte come comandante ci si sente soli.
In tante occasioni ho dubitato delle mie scelte. Ci sono state volte che ho rimpianto di non aver fatto di più.
Quattro anni sono anche lunghi. Ci si può stancare.
Al termine del terzo anno ero stanco e riuscii a riprendermi grazie all’ambiente circostante.
Al termine del quarto anno, avrei voluto continuare.
Questo periodo rimane oggi un piacevole capitolo della mia esperienza di comando.
I bivacchi, le marce, l’escursione a 2800 metri sul Giubino, gli sfondi pittoreschi delle cerimonie della presa e resa della bandiera, gli incontri con cittadini soldati, gli esercizi sanitari presso le fattorie, le ispezioni, le esercitazioni, le giornate speciali, le dispute, i contatti con politici, con i superiori.
Battaglione ospedale 5? Ora so cosa è.
Avrei avuto tante cose ancora da imparare ma il mio tempo era scaduto.
“Perché mi piacciono le sfide.
Perché mi piace mettermi in gioco”.
Questo è un capitolo che non avrei mai volevo scrivere.
Con il comando di un battaglione avevo raggiunto il mio Zenit. Mi sbagliavo. O meglio lo Zenit probabilmente lo avevo raggiunto ma avevo ancora molto da imparare.
Con la mia esperienza di comando, condita abbondantemente anche dalla gavetta come comandante sostituto, potevo ancora dare molto.
Come sotto capo di stato maggiore, avevo la possibilità di esplorare una nuova dimensione; una grande unità.
Andiamo con ordine.
Per il dopo comando, il brigadiere mi aveva fatto chiaramente capire che dopo aver già discusso con il suo predecessore, mi voleva come SCSM (sotto capo di stato maggiore) 7.
Mi voleva all’istruzione.
Wow ero proprio stato convincente.
Al termine del corso tattico, fu anche comunicato a tutti i partecipanti. Penso che alcuni non rimasero molto contenti.
Probabilmente le mie idee a volte intimoriscono e spaventano anche i migliori.
Anche se avevo confermato, in tale contesto, la mia disponibilità, non ero affatto contento.
Mi sarebbe piaciuto assumere la funzione del G3 (operazioni) oppure del G2 (informazioni).
Molte funzioni in realtà sono solo appannaggio degli ufficiali SMG, quindi a me escluse.
Conoscendomi, alla presa della funzione mi sarei fatto trovare pronto.
L’anno successivo era il 2012. Corso tattico.
Senza preavviso fui convocato ancora una volta presso il comandante di brigata.
In breve mi si chiese di rinunciare al G7 in favore del G8 (finanze). Finanze? Tranquilli, di finanze c’era solo il nome.
Il G8 era solo una funzione in più, un G a disposizione della brigata.
Accettai di buona fiducia anche se non ne ero molto convinto e carico delle ottime esperienze a livello di comando mi persuasi che era veramente una buona opportunità.
In quel periodo, avendo intorno a me ottenuto una buona dose di fiducia, accettai di buon grado tutte le spiegazioni e le motivazioni che contrastavano con le precedenti fatte un anno prima.
Quindi non era una questione di prestazioni.
Questo cambiamento non mi lasciava solo l’amaro in bocca; questo cambiamento di rotta mi procurava mal di pancia.
Il primo gennaio del 2003, entrai in carica come G8.
Sulla carta avevo una cella, ovvero un gruppo di lavoro.
All'inizio avevo solo un collaboratore: il mio S3 del battaglione che mi aveva seguito in questa nuova avventura.
Incarichi? Organizzare un esercizio di battaglione e la responsabilità nella coordinazione della redazione dell’ordine di brigata.
La prima settimana di stato-maggiore era a Friborgo. Quando vi giunsi, cercai il mio ufficio ma non lo trovai.
Già, il G8 era stato fino ad quel momento una figura sfuggevole (il mio predecessore, non si era quasi mai visto).
L’entità 8 era inesistente. Si trattava quindi di farsi vedere e sentire.
Così mi sono procurai lo spazio necessario per la mia cella.
Iniziammo a lavorare. Ci facemmo conoscere.
Il più grande cambiamento da comandante a ufficiale di uno stato–maggiore è il fatto che prima ero io il responsabile, mentre dopo dovevo lavorare io per il mio comandante.
Ma dopo il normale assestamento non fu difficile.
Mi abituai.
Anche il servire, può essere visto in due modi differenti la prima possibilità è di servire su comando, mentre la seconda possibilità consiste nel servire attivamente e laddove necessario e fino alla decisione essere spinoso. Ci sarebbe una terza variante, ovvero quella del servire ossequiamene - sottomettere completamente la propria visione in funzione della carriera.
Quest’ultima è una variante che non ho mai preso in considerazione. Al solo pensiero mi viene la pelle d’oca.
Ricapitolando, nella prima variante si esegue e si produce solo in funzione di quello che vuol sentire o avere il superiore di turno; la seconda visione è quella di lavorare in funzione del comandante, ma senza lesinare la critica, a volte essere scomodi -sempre però in funzione della riuscita della missione.
La terza variante è per coloro che perseguono solo la via della carriera - che non fa rima necessariamente con successo.
Io scelsi sempre la seconda.
Il 2013 trascorse senza lasciare una grande impronta e senza particolari entusiasmi. Durante l’ultima settimana di SM, chiesi al comandante di brigata un colloquio durante il quale gli dissi chiaramente che non ero contento e gli chiedevo di lasciarmi andare (2015).
Sì ero in crisi di identità. Il tempo passava. Me ne feci una ragione. L’ambiente, ancora una volta fu il collante che mi motivò ad andare avanti.
L’anno successivo mi conformai: ascoltavo, seguivo, lavoravo. Senza grossi entusiasmi ma contento dell’ambiente.
Da quando assunsi la funzione G8, avevo anche la responsabilità di preparare la regia di un battaglione speciale.
Il battaglione logistico sanitario 81: ero sicuro che fossero tutti contenti, in quanto la preparazione di questo esercizio aveva in sé delle particolarità.
La prima consisteva nella difficoltà ad esercitare un battaglione con due compagnie, dove solo una era realmente in servizio inoltre questo battaglione era legato all’infrastruttura e alle strette norme igieniche di produzione, mentre la terza particolarità era la dipendenza diretta della farmacia dell’esercito.
Tradotto in altri termini fu necessario una giusta dose di fantasia, flessibilità ed empatia con il personale civile. Questo compito venne risolto con tanto lavoro e con la felice constatazione che il suo comandante e lo stato maggiore erano sempre pronti a imparare e a migliorarsi.
Un vero successo.
Esercizio “POLLUX”.
Entro in servizio, installai la mia cella e mi rallegravo già del fatto che per i prossimi giorni nessuno mi avrebbe infastidito più di tanto, in quanto la cella G8 dell’esercizio “POLLUX” era molto ininfluente.
Suono del mio note-book, ero online... ed ecco entrare nella mia cella non ricordo più chi, pregandomi di andare subito dal capo di stato maggiore della brigata.
Nell’ufficio, vidi il mio amico Matteo bianco come un foglio di carta (Matteo? si colui che dovetti sostituire all’indomani dei corsi di ripetizione). Mi fissava ma non parlava.
Iniziò a parlare il C SM: “Alessandro, Matteo deve andare a casa. Ha problemi di schiena. Non può restare. Vuoi prendere il suo posto di capo del G2 (servizio informazioni e nota bene funzione SMG) durante l’esercizio?”.
Guardai Matteo, Matteo mi fissò e capì che stavo formulando in pochi secondi l’idea di dire no.
Infatti in quei secondo pensai: “Signori no! Questa volta arrangiatevi, non mi avete voluto prima, ma adesso che vi fa comodo … “.
“Accidenti, ho detto di si. Perché?”
Perché mi piacciono le sfide. Perché mi piace mettermi in gioco. Si. La mia cella, sempre composta dal mio ex S3, automaticamente e senza chiederlo mi raggiunse lavorando insieme.
È stata un’esperienza indimenticabile; non solo per le prime trentaquattro ore ininterrotte di lavoro - lo richiedeva lo scenario - ma anche per la collaborazione che ho ricevuto.
Un brigadiere e un divisionario, non perdevano l’occasione di congratularsi.
Alcune persone mi dissero pure che per molto tempo questo non sarebbe stato dimenticato.
Forse. Ma come vedremo il 2015 fu l’anno nel quale dovetti cercare la mia prossima funzione. Mi restò comunque la soddisfazione di aver svolto un ottimo lavoro.
Correva l’anno 2015 e durante il mio corso tecnico - all'anno ne svolgevamo quattro di una settimana ciascuno - mi aspettavo un colloquio con il brigadiere, in quanto ero venuto a conoscenza che questo sarebbe stato il mio ultimo anno nella funzione di G8.
Armato di pazienza e allarmato dal fatto che sentivo che non c’era niente di concreto, consultai gli organigrammi del nuovo esercito.
Purtroppo le funzioni che mi interessavano avevano la premessa di essere stato-maggiore generale.
Pensai tra me che con tutte le eccezioni che facevano, potevo questa volta usufruirne anche io. Così proposi quello che mi interessava e questo indipendentemente dalle regole.
Devo ammettere che io non mi trovavo in una posizione facile.
Forse per l’età, le alte aspettative, dico sempre quello che penso e sapevo che non essendo un ufficiale di stato-maggiore generale, molte porte interessanti erano per me chiuse.
Avevo 48 anni e ancora voglia di dare. Ed ecco il carosello.
Già nel 2014, avevo chiesto al brigadiere la possibilità di andare via, in quanto non mi sentivo a mio agio. Così dopo un colloquio, l’ufficio della brigata mi mise in contatto con uno dei diversi AST (sono degli stati maggiori a livello esercito).
Presi contatto e mi presentai. Dopo aver ascoltato il colonnello di turno, anche se il posto era possibile e con il grado di colonnello, mi resi conto che non era per me.
Durante il mese di gennaio del 2015, appresi fra le vie delle latrine che questo sarebbe stato il mio ultimo anno in qualità di SCSM.
Così su consiglio del mio C di SM - Capitano e Capo di stato maggiore - studiai gli organigrammi del futuro esercito e feci delle proposte: G5 (pianificazione) della brigata, G2 (informazioni) e G7 (istruzione) della BLEs (Base Logistica dell’esercito).
Dato che non c’era niente di concreto mi dissero che il brigadiere non voleva parlare con me.
Il povero impiegato della brigata così mi chiese se ero disposto a seguire una giornata di informazione presso la BLEs dove si sarebbe stato spiegato le diverse funzioni.
Rifiutai.
“Perché?” mi chiese l’impiegato.
Semplice, so cosa voglio, ma soprattutto so cosa non voglio.
Mi rispose: “Ah, sei difficile”.
Ci pensai su e chiesi successivamente una nuova funzione: comandante sostituto della brigata (funzione non SMG, ma occupata da un SMG).
Ottenni un feed-back? Chiaramente no.
Il nuovo capo mi informò che l’unica cosa sicura era quella che al termine del 2015 avrei lasciato il mio posto ad un'altra persona – cosa che ritenevo cosa giusta - e se non avessi trovato altro per me, sarei rimasto per un minimo di un anno incorporato con la funzione di ufficiale a disposizione.
Durante un CT (corso tecnico) 2015, il brigadiere disse che avendo dato così tanto per la brigata, sicuramente avrebbe cercato per me una degna funzione.
Si accese così un piccolo battibecco intellettuale fra me e il capo di SM.
Ero stanco delle persone che promettevano, e stanco delle persone che mi dicevano che non potevano fare niente.
Cercavo una funzione di nicchia.
Avvertivo un vuoto dentro me. La sensazione di essere effettivamente solo un numero, una traccia di un disco di un 33 giri. Un lato B.
Per anni sono stato – direi anche giustamente – indottrinato a pensare che il personale è la risorsa più importante di ogni organizzazione.
Così, anno dopo anno, corso di ripetizione dopo corso di ripetizione era una mia preoccupazione e dovere parlare con tutti i quadri di mia competenza per fare il punto della situazione.
Parlare, ascoltare, proporre, convincere.
A volte mi capitava che all’ultimo giorno di un servizio, qualcuno si annunciava. E anche se quasi al tempo limite, mi rimboccavo le maniche e facevo il necessario richiesto.
Questo è quello che i miei superiori si aspettavano da un comandante di battaglione; questo è quello che mi aspettavo dai miei superiori.

“...cercherò pezzi sempre nuovi per il puzzle infinito
che la vita offre”.
Non volevo essere incorporato alla BLEs, invece eccomi qua.
Primo corso di SM (stato-maggiore) del 2017.
Dovevate vedermi! Se osservavate la mia faccia, i miei lineamenti, le mie parole, il mio sguardo, avreste capito che non mi sentivo a mio agio.
Avevo preso comunque, il mio tempo per prepararmi.
Mi ero informato sui doveri di questa funzione, avevo chiesto ai camerati e avevo letto i regolamenti che concernevano.
Arrivò subito la prima sorpresa: in barba alla funzione ero stato destinato alla cellula istruzione.
A questo punto il mio orizzonte divenne più nero che mai.
Con gli anni si impara anche ad avere un certo Karma, così rimasi calmo, feci il mio lavoro in silenzio, senza espormi più del dovuto.
Ma anche il 2017 fu ben presto consegnato agli archivi di una storia ben presto da dimenticare.
Senza troppi scalpori, ricevetti una lettera la quale mi annunciava che avrei assunto una funzione di SCSM istruzione a partire dal 01.01.2018.
Non ricordo più la mia reazione.
Forse rimasi apatico a quella lettera che oltre a comunicarmi una funzione, chiariva due ulteriori punti.
Il primo era che avrei dovuto espletare la funzione da un minimo di 4 a un massimo 8 anni, la seconda è che sarei rimasto tenente colonnello, anche se la funzione era da colonnello.
Pace amen!
A buon viso cattivo gioco.
Anche se le prestazioni erano buone, sentivo che era giunta l’ora di smettere. Semplicemente la funzione non mi soddisfaceva.
Mi salvò il mio senso di responsabilità e la mia equipe che con il tempo – insieme – migliorava.
Era dunque l’8 di maggio 2019 quando il comandante della scuola centrale, brigadiere Peter Baumgartner a quattr’occhi, informalmente mi comunicava che dal 01 di luglio dell’anno in corso, sarei stato promosso a colonnello.
La giustificazione ritengo debba essere trovata nella mia funzione al comando MIKA; in quanto rappresentavo l’esercito presso i civili e che nella milizia ricoprivo una funzione da colonnello.
La mia promozione è stata dunque oggetto di una riunione delle più alte sfere dell’esercito, dove il capo dell’Esercito e il capo dell'ISQE (Istruzione Superiori dei Quadri dell’Esercito), divisionario Daniel Keller, giocarono un ruolo fondamentale.
Come ben si sa per un ufficiale professionista la promozione entra in gioco quando la funzione professionale e la posizione nella milizia sono confacenti, tranne eccezioni. Bene questa volta ero io l’eccezione. Devo dunque ringraziare la componente professionista che si è adoperata attivamente per farmi promuovere.
È tutto vero: sono colonnello, ho una funzione da SCSM (Sotto Capo di Stato-Maggiore) e non potrei che essere contento.
La cellula istruzione prima esisteva in un’altra forma e la sua percezione era: si, esiste.
L’istruzione era da sempre una cellula che adempiva un compito di servizio, di appoggio che doveva però garantire una qualità in caso di impiego. L’esplicitazione cercava sempre di sovrapporsi alle esigenze dell’istruzione, causando frustrazioni e incomprensioni.
Consapevole di ciò, ancora oggi sto cercando di avallare un modello di istruzione su base flessibile: ove necessario obbligatoria e nella maggior parte dei casi adattiva alle esigenze del collaboratore.
Questo è l’obiettivo del mio presente.
Guardando al recente passato, posso asserire di aver sviluppato un buon concetto d’istruzione dando la possibilità a ogni singolo di scegliere la strada più adeguata.
Ora però voglio smettere. Voglio voltare definitivamente pagina e chiudere il libro che è stato l’esercito di milizia. Mi sembra di aver dato abbastanza. E cosa farò?
Di certo cercherò pezzi sempre nuovi per il puzzle infinito che la vita offre, per migliorare me stesso e raggiungere nuove mete.